Scrittore, poeta, polemista, regista, pittore. Ma anche anti-sessantottino, anti-abortista, anti-modernità. Pier Paolo Pasolini ha incarnato nel Novecento l’artista totale, il genio che qualsiasi iniziativa decidesse di intraprendere diventava un’operazione riuscita. La sua opera, a prescindere dal mezzo che utilizzava, ha toccato le grandi questioni della contemporaneità con domande e con provocazioni che ci interrogano ancora oggi. Artista totale lo era anche per il modo in cui ha vissuto la sua vita, in un’esposizione costante del suo corpo, del suo desiderio, del suo essere se stesso.

Pasolini il maledetto, perché la sua epoca lo ha tanto amato ma anche tanto odiato. Per la sua sessualità che nella dichiarazione di omosessualità non si è mai voluta normalizzare, diventare famiglia, scegliendo la strada e i ragazzi di vita come luogo del proprio desiderio. Per la sua ereticità, per il suo stare sempre dall’altra parte come quando dopo Valle Giulia si schiera con i poliziotti contro i figli della borghesia che manifestano. Con le lucciole rimpiange in maniera reazionaria il passato, evocando un mondo ancestrale fatto di sfruttamento e di potere maschile. Lui queste storture non le vede, non le denuncia. Anzi. La nostalgia per il mondo che viene travolto da quella che poi chiameremo globalizzazione è troppo forte. E così sull’aborto volta le spalle al femminismo, le cui ragioni non fa mai sue. Pasolini viene espulso dal Pci per immoralità, subisce 33 processi e un centinaio di denunce. È scomodo, fuori da qualsiasi chiesa. Eppure proprio lui che viene perseguitato dalle autorità per le sue idee e il suo linguaggio è uno dei padri del complottismo italiano.

Non è un caso che di recente la rivista del Fatto quotidiano, “Millennium”, abbia dedicato un articolo alla persecuzione giudiziaria da lui subita. A parte la contraddizione palese – l’house organ delle manette che protesta contro le manette a Pasolini – è chiaro il filo che lega il grande scrittore a giustizialisti e complottisti, che poi spesso sono la stessa cosa. Certo, va fatta subito una precisazione: stiamo parlando da una parte di un grande intellettuale e grande scrittore, dall’altra del cascame ideologico, privo di talento, che in questi anni ha divorato anche la cultura e l’intellighenzia del nostro Paese. Ma non si può, a distanza di anni, non mettere sotto accusa l’articolo uscito il 14 novembre 1974 sul Corriere della sera dal titolo Cos’è questo golpe? Io so (i nomi): un atto di accusa generico contro la classe politica che avrebbe nascosto i responsabili delle stragi. “Io so i nomi – scriveva – ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”.

Il manifesto del giustizialismo che decide la colpevolezza calpestando la presunzione di innocenza, che manda le persone in galera sulla base di teorie non verificate, che organizza processi sommari nella pubblica piazza sulla base di convinzioni personali. Sì, è vero che Pasolini è stato profetico, lo è stato sicuramente rispetto a quello che sarebbe stato il clima generale del Paese dopo vent’anni, trent’anni dalla sua morte. Un clima che dura ancora oggi. Un anno dopo la pubblicazione di quell’articolo, il 2 novembre 1975, Pasolini viene ucciso all’Idroscalo di Ostia. Il colpevole per i giudici è Pino Pelosi, detto la Rana, che trent’anni dopo aver riconosciuto di essere stato lui l’omicida di Pasolini, dichiara in un’intervista a Franca Leosini di non essere stato solo sul luogo del delitto. In seguito farà anche i nomi dei cosiddetti complici. Ma Pelosi non parla a caso. Sono anni e anni che si alimentano teorie complottiste sulla morte di Pasolini. Qualcuno dice che è stato ucciso per avere scritto l’articolo “io so i nomi”, altri legano il mistero al film Salò che uscirà poco dopo la sua morte e di cui, durante le riprese, vengono rubate alcune bobine.

Nel 1986, quando viene pubblicato Petrolio, la narrazione sulla sua morte si infittisce ulteriormente. Il romanzo è un “non finito”, ma forse proprio per questo suo “non finito” è dal punto di vista stilistico, letterario, un vero caso. Il frammento inserito nel disegno monumentale dell’opera crea un elemento di contraddizione fortissimo: la narrazione sincopata eppure epica, l’ambizione di raccontare un intero Paese, attraverso lo sdoppiamento di personalità del protagonista Carlo diviso tra il bene e il male e che a un certo punto si sveglierà nel corpo di una donna. C’è in Petrolio tutta l’ideologia pasoliniana che andrebbe indagata, capita, vagliata. Ma c’è chi ci ha voluto vedere prima di tutto il motivo della sua morte. La critica al potere, al Palazzo (è sua la definizione populista) sono il collante dell’opera in cui si raccontano le vicende dell’Eni. E se lo avessero ucciso per questo? E se Petrolio fosse legato a Salò e alle bobine rubate?

Nel 2010, per non farci mancare nulla, Marcello Dell’Utri, ha dichiarato di avere ritrovato un frammento sparito del romanzo. Nuove ombre, nuove congetture. Invece l’unica certezza è che Pasolini è stato ucciso da uno dei ragazzi di vita, e questo non va giù. Non va giù che il mito, il vate, il grande intellettuale avesse una vita sessuale non classificabile, per molti insopportabile moralisticamente. Quegli stessi che però ne hanno amato le congetture, le definizioni che alimentano i sospetti, la cultura della presunzione di colpevolezza. A tal punto hanno amato questi aspetti di Pasolini, da aver proiettato sulla sua morte questa passione per l’irrazionale, per l’anti-politica, per tutto ciò che non rientra nello stato di diritto. Caro Pasolini, lasciacelo dire, quanti danni hai fatto!

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