Nella pletora di libri su Dante – divulgativi, specialistici, pretestuosi, accademici – vorrei indicare un saggetto prezioso, che ho trovato fortunosamente in una libreria d’occasione (e che mi ero perso quando uscì vent’anni fa): Le due mani di Dio, di Franco Ferrucci (Fazi). L’autore non è propriamente un dantista, anche se si è occupato in varie occasioni dell’opera dantesca, ma questo smilzo libretto di 150 pagine, straripante di intuizioni critiche, rivela una erudizione, un vivacità intellettuale e una passione “militante” assolutamente rare (altri studiosi avrebbero ricavato un volume da ogni capitolo!).

L’immagine che ispira il titolo è di Bernardino da Siena, e riassume la fusione cristiana di monoteismo biblico e politeismo pagano. Da una parte Jeova, il Dio dell’Antico Testamento, solitario e austero, intrattabile e infinitamente distante e dall’altra il Nuovo Testamento e poi la religione cristiana come viene maturando nei primi secoli, con il suo velato politeismo: le figure dei santi (dei inferiori), la Vergine Madre (la più alta divinità minore dopo quella di Cristo, figura pagana, “Giunone dalla riacquistata innocenza” legata a Dio da un rapporto “obliquamente incestuoso), e di Cristo stesso (la sua doppia natura: nella eresia ariana era considerato un dio minore). In seguito all’interno della religione cristiana resterà una tensione tra l’anima politeistica e di origine pagana e la vocazione monoteistica, rappresentata soprattutto dal misticismo. La Divina Commedia è la più alta testimonianza di questo “monopoliteismo”, con le sue innumerevoli presenze pagane e la visione mistica dell’ultimo canto.

Una riflessione, questa, che ci aiuta a capire meglio la identità culturale dell’Occidente, nata dalla confluenza di tradizione ebraico-cristiana e cultura classica. Ma ora vorrei concentrarmi sul capitolo più illuminante del libro di Ferrucci, sull’ironia di Dante. Ferrucci ha insegnato molti anni alla Rutgers university, New Jersey. Proprio in America, durante una lezione che tenevo sui classici, una studentessa mi chiese scandalizzandomi un po’ – con innocente spudoratezza: “Mi scusi, ma Dante era italiano” (“Pardon me, is Dante really Italian?”). Per molti americani capii che Dante rappresenta un vertice della letteratura universale, quasi senza patria e senza radici. Me ne sentii ferito nell’orgoglio. Il punto è che Dante, con la sua severità e intransigenza morale, con la durezza che mostra nell’Inferno (ai limiti del sadismo) non sembra tanto assimilabile al carattere italiano così come si è plasmato nei secoli e come viene riconosciuto il tutto il mondo (si sa, siamo un popolo di simpatici commedianti, di esteti e di inesauribili retori, un po’ geniali e un po’ cialtroni).

Oltre al fatto che Dante, verosimilmente, era favorevole sia alla vendetta che alla pena di morte! Ma d’altra parte Dante mi appare anche italianissimo, per innumerevoli ragioni. E qui vengo all’ironia: «Una ventata d’ironia trasvola sull’intera Commedia e investe lo stesso protagonista». Ferrucci si riferisce non tanto agli episodi esplicitamente comici (i canti dei barattieri nell’Inferno), ma a quei momenti in cui Dante rivede se stesso a confronto con una realtà che sollecita il suo gusto del paradosso (quasi una anticipazione dell’ironia romantica, della “buffoneria trascendentale” cui accennò Schlegel). Dante è per lui – costantemente – sia eroico che ironico.

Ripassiamo velocemente con l’autore alcuni di questi momenti: l’idea di mettere vicino, nella bolgia infernale dei falsari, Gianni Schicchi, personaggio buffonesco da commedia, e Mirra, eroina tragica ovidiana, o quella di far dire allo scismatico Maometto una profezia sull’uccisione prossima dello scismatico fra Dolcino, il fatto – sottolineato dal solo Tasso – che Virgilio di fronte a Ulisse si fa passare per Omero (per sentirsi raccontare la sua storia), l’incontro con Oderisi da Gubbio tra i superbi del Purgatorio (il quale sottolinea il carattere effimero della fama), e fino all’esame di san Pietro sulla fede in Paradiso. A questi esempi, e a innumerevoli altri, occorre aggiungere la canzonatura reciproca di Dante e Virgilio. Senza trascurare che «ironico è già il fatto che l’unica persona vivente sia il narratore, in questo universo di morti che gli parlano come vicini di casa o amici d’infanzia» (di qui anche la compresenza di linguaggio sublime e linguaggio plebeo).

Insomma l’ironia significa per Dante riconoscimento del carattere contraddittorio, paradossale, indecifrabile della realtà. Di qui la immissione – in un poema che si vuole pur sempre sacro – del teatro, del gioco, della maschera, della canzonatura, della finzione, della messinscena. Tutti aspetti inequivocabili, bisognerà riconoscerlo, del nostro carattere nazionale. Pasolini si ispira continuamente a Dante e anzi volle rifare la Divina Commedia (con esiti semi-disastrosi). Eppure non aveva alcun senso dell’ironia, e anzi diffidava dell’ironia come attitudine riduttiva del piccolo borghese. Probabilmente Pasolini, in ciò, era più “cristiano” di Dante! Viveva cioè ogni momento in una specie di tensione totale, in una continua drammaticità, identificandosi (fin da ragazzo) nell’immagine di Cristo in croce (riusciva a essere creativo solo se si sentiva perseguitato).

Si dice che Pasolini durante il set di alcuni film (ad esempio Cosa sono le nuvole) amasse sbellicarsi dalle risate con gli attori e le comparse (in quel caso Totò, Franchi e Ingrassia, Laura Betti…), però l’ironia è latitante nella sua intera opera. Era più Savonarola che Dante, più un predicatore medievale, vibrante e apocalittico, che un poeta incline all’ironia giocosa come Dante, a quell’uso della mitologia classica «come divertissement perfino gratuito».