In giornate in cui non si parla d’altro che di “papabili” è proprio il caso di riparlare di “Quello che so di te” di Nadia Terranova (Guanda), candidato al Premio Strega, romanzo di cui appunto sentiremo parlare nei prossimi mesi (deve essere estratta la cinquina dei finalisti, la premiazione sarà il 3 luglio). Questo è un romanzo che a buon diritto entra nella scia dei grandi libri scritti da donne – lasciamo stare i nomi, fin troppo noti – e non solo per la vicenda narrata ma per quel particolare clima di sospensione angosciosa che solo una donna sa trasmettere sulla pagina con questa forza.

Una donna, una madre. «C’è nella maternità uno strano potere», scrive Virginia Woolf riportata nell’esergo al primo capitolo del libro: dove, sembra di intendere, con “maternità” si allude al mistero, evangelicamente, cioè a quella spirale che sormonta la discendenza con tutto quel che ne consegue di esprimibile e di inesprimibile. Un “potere”, quello di mettere al mondo un nuovo essere umano, circonfuso di enigma, e di pericolo anche: «Come si torna a scrivere dopo un parto, come si continua a essere spietati sulla pagina? Per anni mi sono sentita coraggiosa nell’illusione di uccidere, ma non posso scrivere per uccidere mia figlia. Un padre e una madre li puoi distruggere, un figlio lo devi soltanto salvare».

L’io narrante del romanzo di Terranova (quanto c’è di autobiografico?) è una donna appena diventata madre che osserva sua figlia mentre dorme nella culla: «In quel momento capisco cosa non potrò più permettermi di fare. Impazzire». Dice così la protagonista, alludendo all’altro pezzo della storia che riguarda la bisnonna, Venera, internata per undici giorni nell’unico manicomio di Messina nel 1928. E siccome «non basta sognare il passato, bisogna andarselo a prendere», si tratta di ritornare a Messina, tra le mura dove Venera è stata internata e cercare un varco tra le memorie e la realtà, tra reminiscenze mitologiche, paure ancestrali e qualche sentore di scienza: ed ecco che il rischio di un nuovo “inciampo” della mente è sempre incombente. Diventare pazza. Si ferma perciò sulla soglia del buio, la protagonista, che fruga nelle cartelle cliniche di Venera per cercare di capire se possa esservi una linea di trasmissione della follia; lei che non vuole precipitare nel baratro che inghiottì la bisnonna, sulle cui tracce incede, fin nella dorata Messina nativa, in un percorso sempre malfermo.

L’incastro tra passato e presente è al tempo stesso ruvido e dolce, persino in certi momenti commovente. Ed il fascino della storia di “Quello che so di te” sta appunto in questo incespicare nelle sabbie mobili della memoria e nell’avanzare, ma verso dove? Ha scritto bene Marina Valensise: «Ogni cosa qui obbedisce alla tirannia dell’io che vuole sapere, vuole capire e non si dà pace finché non ha sgombrato il campo di tutti i macigni del passato, che gli impediscono di vivere la libertà». Con “Quello che so di te” Nadia Terranova consegna alla letteratura italiana un pezzo di gran classe, intriso di dolore e di vita.