Ce l’abbiamo un po’ tutti, ma la politica di più: è l’insopprimibile pulsione a complicarsi la vita. Il clima elettorale aumenta la temperatura, ma il vizio autolesionista è consolidato. La questione del redditometro della discordia è emblematica. L’escalation è stata repentina come le grandinate di questi tempi: dall’annuncio alle baruffe fino all’altolà di Palazzo Chigi. Il buon senso, in questi casi iper-mediatici, evapora in un attimo: “Abbiamo un tax gap di 80-100 miliardi di euro l’anno – si scusava appena ieri ‘l’imputato’, cioè il viceministro all’Economia Maurizio Leo – non possiamo mollare la lotta all’evasione. Quelli che hanno fatto le truffe del Superbonus, facendo sparire 15-16 miliardi, come li becchiamo senza redditometro? Parliamo di gente che non ha mai fatto la dichiarazione dei redditi”. Già: come facciamo, diceva in sostanza Leo, ad essere coerenti con le nostre stesse linee di azione, cioè arginare la slavina dei conti pubblici indotta dal Superbonus, se non andando a dare un’occhiata ai redditi presunti di chi non li dichiara?

La sindrome del farla difficile

“Pensavo che si potrebbe fare l’amore… ma pensavo che fosse impossibile. È possibile?”. La sindrome del farla difficile sembra presa pari pari da un film di Nanni Moretti. E non lascia scampo. Forse perché attinge in paure irrazionali. L’elettore è visto non più come l’insieme di bisogni e domande diverse da condurre a sintesi, ma di volta in volta come un singolo piazzista di interessi sacri, o meglio come un potenziale manifestante da non deludere a nessun costo. Con il rischio di farsi danno da soli. Aumentare le licenze dei tassisti o dei balneari, ad esempio: la paura di scontentare una categoria dovrebbe essere ampiamente compensata dalla prospettiva di far felici tutti gli altri.

Gli italiani pagano due volte

O tracciare tutti i pagamenti: una semplificazione contro l’evasione tanto banale ed efficace da essere vista come un’utopia. La storia delle polemiche di maggioranza (e delle critiche di opposizione) sul redivivo redditometro rientra nel paradosso di uno Stato che lamenta le omissioni e gli abusi dei cittadini ma ritiene troppo pericoloso provare a contrastarli. Il risultato è che a sostenere il peso fiscale per tutti è una ridottissima minoranza di italiani, che pagano due volte, se si considera il costo del debito crescente e dei conseguenti tagli alla spesa per sanità, pensioni, trasporti e altri servizi. Oggi il paradosso è ancor più marcato, al punto da far sembrare il Ministero dell’Economia un consesso di alieni infiltrati dal nemico: prima Giorgetti, poi Leo presentano il conto e i possibili rimedi, ma il risultato è che i loro colleghi di maggioranza, e persino l’opposizione che dovrebbe tifare per l’equità fiscale, li accusano di intenti vessatori.

Il redditometro

Ma non è il governo che ha appena dichiarato guerra al Superbonus di Giuseppe Conte? E non fu lo stesso avvocato del popolo, nel 2018, a imbrigliare uno strumento, il redditometro, che vide la luce per la prima volta nel 1993 e che fu rinvigorito nel 2010 nientedimeno che da Silvio Berlusconi? Non pare vi sia granché di oppressivo nel decreto che lo rimette in campo, peraltro con argini e correttivi che mirano a renderlo meno vago ed aleatorio, dopo il blocco dei “criteri induttivi” deciso da Conte. Si prevede ad esempio che il contribuente sia chiamato a concordare con il fisco un esito bonario anche prima che l’accertamento abbia inizio. Una misura, peraltro, reclamata dalla Corte dei conti e preventivamente condivisa con Istat, Garante privacy e associazioni dei consumatori. Lo Stato guardone, intrusivo. Persecutorio dei contribuenti indifesi. Ecco le parole magiche che fanno sentire molto liberale, in maggioranza o all’opposizione, chi le pronuncia. Chissà se costoro ritengono liberale anche esser costretti, per far quadrare i conti, a imporre altre tasse e altri tagli, o emettere nuovi salatissimi titoli di debito trattenendo il fiato fino all’ultimo giorno.

Sergio Talamo

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