Verso il voto
Referendum 8 e 9 giugno, se l’astensione è un modo per dire che la democrazia merita di meglio

Chi l’ha detto che disertare le urne in occasione di un referendum sia sempre un errore? E soprattutto, chi può permettersi di dettare le regole morali del voto, se non osserva le stesse in ogni occasione? C’è una certa ipocrisia – spesso ben mascherata da retorica democratica – nel condannare l’astensione solo quando non fa comodo, invocando il sacro dovere del voto a giorni alterni, a seconda del quesito proposto.
Serve il quorum
Nel caso dei referendum abrogativi, la questione è ancora più delicata. La legge prescrive un quorum, ovvero una soglia minima di partecipazione, per rendere valida l’abrogazione di una norma. E questo non è un cavillo tecnico, ma una garanzia sostanziale: per abrogare una legge serve una mobilitazione reale, un consenso diffuso, non una maggioranza relativa strappata a suon di slogan. In quest’ottica, l’astensione non è un tradimento della democrazia, ma la sua tutela. È una scelta legittima, che risponde al principio secondo cui il silenzio può avere lo stesso peso della parola. Eppure, chi oggi tuona contro il “boicottaggio” del referendum, ieri era in prima fila nel non votare quesiti che minacciavano gli equilibri a loro cari.
Il precedente
Forse non è solo partigianeria, ma anche il riflesso di un sistema distorto, dove i rappresentanti si eleggono con meno della metà degli elettori, o con maggioranze sempre più esili, mentre nessuno – a cominciare dai partiti – sembra preoccuparsi davvero della crisi di legittimità che ne deriva. C’è un Parlamento che da tempo ha smesso di legiferare con autorevolezza, preferendo delegare al popolo temi che richiederebbero visione, studio e coraggio politico. Ma come si può pretendere che i cittadini compensino con una crocetta l’assenza di una classe dirigente all’altezza del compito? E val la pena ricordare il precedente recente: il referendum sull’abrogazione del Rosatellum. Una legge elettorale che, come molte sue antenate della Seconda Repubblica, ha esautorato gli elettori, trasformando i segretari di partito in onnipotenti architetti delle liste. Dove erano allora i paladini del voto, quando si trattava di ridare al cittadino il diritto di scegliere i propri rappresentanti? Silenzio. O peggio: ostilità attiva, ostracismo mediatico, marginalizzazione di un’iniziativa popolare nata dal basso, senza padrini né poteri forti alle spalle.
Il diritto di astenersi
Ecco perché chi oggi sceglie di non partecipare, lo fa con la schiena dritta. Non per disinteresse, ma per coerenza. Non per indifferenza, ma per rigore. Chi rifiuta un quesito mal posto, o ne contesta il presupposto stesso, ha pieno diritto – e forse anche il dovere – di sottrarsi a una consultazione che non riconosce come realmente democratica. Non votare, in certi casi, è il modo più forte per dire che la democrazia merita di meglio.
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