Onorevole Lia Quartapelle, riformista del Pd e tra le firmatarie della lettera dei sei riformisti sui referendum voluti dalla Cgil indica l’esigenza di fissare un punto fermo, di dire: non ci stiamo.
«Secondo me è sempre giusto motivare i propri voti. E questo abbiamo voluto fare: abbiamo spiegato cosa faremo al referendum e perché».

La posizione che avete assunto come riformisti Pd è articolata. Darete alcuni sì e alcuni no.
«Sì, il Pd è un partito plurale. Noi siamo a favore dei quesiti sulla cittadinanza, convintamente. E a favore di una riforma sui sub-appalti. I quesiti della Cgil sul Jobs Act no, non li voteremo. La stessa segretaria quando ne ha parlato in direzione ha detto che lei, per una questione di coerenza, li aveva firmati. Ma che non chiedeva lo stesso a chi in passato aveva votato per quella legge».

Che è una legge del Pd. Ma ritirerete tutte le schede e voterete no, o non ritirerete le schede, dunque astenendovi?
«Non li voteremo. Ciascuno deciderà come fare: io personalmente, non ritirerò le schede sul lavoro».

C’è più in generale una tendenza landinista che sta dettando la linea anche al Pd…
«La ragione per la quale crediamo che questi referendum siano da rigettare guarda oltre alla polemica con Landini: i lavoratori italiani non meritano quesiti di questo tipo, che guardano alla situazione del lavoro di dieci anni fa, sulla quale era intervenuta una legge dieci anni fa. Oggi la situazione è diversa e la priorità andrebbe data agli stipendi, ancora i più bassi d’Europa. Pensiamo ci voglia energia, concentrazione, mobilitazione per ragionare sul lavoro dei prossimi dieci anni, non per guardare al passato di dieci anni fa».

Troppa attenzione al passato e poca sul futuro, da parte del sindacato?
«Sì ma attenzione, i sindacati stessi sono spaccati. Cgil li ha voluti e li vota. Cisl non li vuole e non li vota. Uil lascia libertà di coscienza. Basterebbe questo per far capire la debolezza di quei quesiti».

Verrebbe da chiedersi quale dibattito, quale momento di discussione e di elaborazione c’è stato nel Pd. E invece, temo, nessuno…
«Noi abbiamo cercato di fare dibattito con questa lettera. Per tornare a rappresentare il mondo del lavoro serve un lavoro politico duro e faticoso, che non si può accontentare di smantellare un feticcio di tanti anni fa. Bisogna tornare ad ascoltare le persone, entrare in contatto con la realtà di milioni di famiglie in cui si lavora sodo ma non si arriva a fine mese. Oggi gli italiani a casa si chiedono con quali soldi si pagheranno le vacanze, non credo discutano animatamente di Jobs Act».

È alle viste nel Pd un momento di confronto? Non dico un congresso, che mi sembra una parola tabù, ma almeno una conferenza programmatica sul lavoro che cambia?
«Questo dibattito riguarda i sindacati, il mondo datoriale, gli imprenditori, il mondo dell’innovazione. Manca sicuramente un dibattito nella politica, nei partiti. Il nostro contributo non voleva essere polemico ma, appunto, chiedere che del nuovo mondo del lavoro si torni a discutere sul serio».

Jobs Act, Difesa europea, Ucraina… si stanno aprendo molti fronti tra riformisti e schleiniani.
«Questa è una fase in cui stiamo discutendo. Antonio Monda, direttore del New Yorker, ricorda che i Democratici americani ai tempi di Kennedy sapevano rappresentare mondi molto diversi, tenendoli insieme. Dobbiamo guardare a quel modello, con ascolto e piena cittadinanza per tutte le idee: gli elettori vogliono una opzione alternativa al centrodestra. Nel nostro campo va costruita un’alleanza ampia, che sappia dare voce ai riformisti. Con una visione chiara del futuro e la capacità di tenere insieme da Avs a Iv, Azione, PiùEuropa. Si comincia dando spazio a tutte le idee».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.