Taranto e Venezia sono diventate, in pochi giorni, il simbolo di un’Italia che affonda. La metafora è così scontata da essere già un luogo comune. E come tutti i luoghi comuni rischia di congelare le analisi. Che, tuttavia, sono indispensabili se si vuole fare davvero il tentativo di invertire la rotta. Le due vicende presentano, indubbiamente, molti profili comuni e possono essere accostate al crollo del ponte Morandi e allo sfacelo di Roma per dare conto di un’Italia che sta precipitando tutta insieme, il Nord e il Sud, il pubblico e il privato, il centro e la periferia. Ma non è stato sempre così. Le autostrade, le linee ferroviarie, il processo di industrializzazione del dopoguerra, che ha riguardato anche il Mezzogiorno, sono stati il risultato di una nazione che è stata capace di lavorare anche per il futuro, di convogliare le proprie energie su di un progetto di crescita dei singoli e del paese nel suo insieme. Le ultime energie spese in questa direzione hanno dato il frutto dell’Alta Velocità, un sistema di trasporti che ha unito il paese in un modo del tutto inimmaginabile sino a pochi anni prima.

Ma proprio guardando all’Alta velocità si riesce a cogliere le ragioni, o almeno alcune delle ragioni principali, di quanto sta accadendo. L’Alta velocità è il frutto della visione, della volontà, dell’impegno soprattutto di un uomo: Lorenzo Necci, presidente delle Ferrovie dello stato negli anni Novanta. Necci ha pagato duramente i suoi meriti: è stato sottoposto più volte ad arresti, perquisizioni, sequestri. E poi assolto. I procedimenti che ha dovuto subire, nella seconda parte degli anni Novanta, sono stati circa quaranta. Quella vicenda ha consolidato due tendenze di fondo, frutto avvelenato dell’epoca di Mani Pulite, già presenti nell’opinione pubblica. Il fatto che l’amministrazione della cosa pubblica fosse un rischio, affrontabile solo da chi non ha nulla da perdere, e il fatto che l’unico valore cui badare fosse l’onestà. Il resto, e cioè la competenza e la capacità di affrontare e di risolvere i problemi, solo un accessorio senza particolare rilevanza. Queste due tendenze spiegano molte cose: il numero crescente di ministri del tutto improbabili, che il Paese ha incoronato; la distruzione di quei centri di competenza pubblica che erano, ad esempio, gli uffici tecnici erariali e l’Anas. L’onestà è stata utilizzata come una clava con cui è stata decimata una intera classe dirigente, a prescindere dalle effettive colpe dei singoli, senza neppure chiedersi chi l’avrebbe potuta sostituire. E siccome il garante per antonomasia dell’onestà è la magistratura penale, a essa è stata affidata non più solo, come è ovvio, la giustizia dei singoli casi, ma la gestione della cosa pubblica nel suo complesso. Non è un caso il pullulare di magistrati nelle file della politica: garanti dell’onestà della lista di cui fanno parte.

In questo quadro il bersaglio principale sono state le opere pubbliche e la grande impresa. Le prime, siccome considerate occasione inevitabile di corruttela e di malaffare. Un rischio assoluto per ogni politico che abbia voluto o dovuto avvicinarsi alla materia. I risultati? Le grandi imprese italiane, capaci di realizzare all’estero opere ammirevoli, sono quasi tutti assoggettate a procedure fallimentari. E, per inciso, è questo oggi il principale problema della realizzazione del Mose di Venezia, atteso che le grandi imprese coinvolte per la esecuzione dei lavori sono in crisi. I soggetti pubblici che dovrebbero avere le competenze necessarie per controllare non esistono più. Le poche opere pubbliche in programma sono bloccate o procedono a rilento. Le grandi imprese, a loro volta, sono state viste con sospetto e ostilità. Costantemente additate ai garanti dell’onestà come fonte inevitabile di illeciti. Di qui, frequentemente, un loro stretto controllo da parte dell’autorità giudiziaria. Lo stabilimento Ilva di Taranto ne è un esempio: sequestri, confische, processi infiniti. Ma il risultato? Il disastro occupazionale e ambientale che è sotto gli occhi di tutti.

Astolfo Di Amato

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