Il tema dei limiti imposti o da imporre alla libera espressione delle idee politiche è un tema tanto antico quanto controverso che si ravviva ogni qual volta nello spazio pubblico si affaccia un nuovo strumento e nuovi canali di comunicazione che potenzialmente rappresentano un’occasione di intervento e di indirizzo nel clima d’opinione. La comunicazione digitale e in modo particolare la diffusione del social network hanno segnato una trasformazione tanto epocale quanto fulminea della sfera politico-mediatica fornendo nuovi ambienti entro i quali pensare e praticare anche la dimensione politica. I social network rappresentano quei luoghi in cui le persone costruiscono il proprio privato con l’intenzione di renderlo pubblico. Il fatto che la piattaforma sia un soggetto privato che stipula accordi privati è percepita dagli utenti – dentro le dinamiche di fruizione ed esperienza social – come una misconosciuta condizione giuridica.

Nella realizzazione delle dinamiche d’opinione e nella vitalizzazione dei luoghi nei quali esse si realizzano, la natura giuridica dei soggetti coinvolti perde di cogenza a fronte dalla diffusa percezione che intervenendo in un dibattito social si stia intervenendo in un contesto pubblico con l’obiettivo di definire, rendere note e condividere le proprie opinioni.  Grazie alla sentenza del Tribunale di Roma con la quale si impone a Facebook di riattivare le pagine legate al movimento politico di Casapound, si riconosce la natura pubblica dei messaggi diffusi nei social e questo significa non solo garantire che il diritto di espressione non sottostia a regole privatamente definite, ma anche ricondurre quei messaggi e quelle dinamiche di opinione alla naturale responsabilità etica attribuita – almeno in teoria – alla politica e al suo ruolo, anche comunicativo, nella società.

L’uso fatto fin qui dai partiti e soprattutto dai leader politici, dei canali social è stato dominato dai principi di popolarizzazione della dimensione politica, dalla fast politics e dalla costruzione persuasoria di percezioni strumentali alla ricerca di un consenso sempre più acritico.  Nonostante la natura più di suggestione che di opinione, il messaggio politico social è un messaggio che si inserisce nel dibattito pubblico perché come pubblico viene percepito, usato ed elaborato sia da chi lo produce e lo diffonde, sia da chi lo recepisce e lo condivide. La decisione del tribunale non fa che ratificare una prassi d’uso già naturalmente consolidata all’interno dei social network. Il peso però di una sentenza che va esplicitamente verso l’equiparazione di questi strumenti a quelli di comunicazione mainstream, impone ai soggetti politici una riflessione sui modi e sui linguaggi, sulle percezioni della realtà che vanno costruendo e diffondendo, sul recupero della memoria e quindi della coerenza del messaggio politico che elaborano nei social e per i social.

È forse prematuro stabilire se la sentenza in questione riuscirà a definire i contorni giuridici di una regolamentazione garantista e inclusiva delle piattaforme social, ma certamente sarà necessario insistere sulla responsabilizzazione dei soggetti pubblici che abitano i social riproducendo e sfruttando le relative dinamiche di relazione e condizionandone l’articolazione d’opinioni.