Da "Delitto e castigo" alle intercettazioni
Rileggere Dostoevskij è un balsamo contro il giustizialismo
Non tutti sanno che il grande romanzo Delitto e castigo sia ispirato fin dal titolo al saggio Dei delitti e delle pene del nostro Cesare Beccaria. Pubblicato nel 1764 è considerato uno dei capisaldi del diritto moderno che ha ispirato leggi e costituzioni di moltissimi Paesi. Fëdor Dostoevskij non lo incontra in maniera casuale. Anche in Russia il libro è molto diffuso e quelle pagine lo spingono a creare uno dei romanzi più potenti della letteratura mondiale. Beccaria così ragiona: «Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi».
Dostoevskij lo legge, forse lo capisce bene anche per le sue vicissitudini personali, lo condivide e ci scrive un libro magistrale sul delitto, sulla colpa, sul perdono. Sul fatto che la pietas vince anche la violenza, la pietas che si esercita nei confronti di chi ha sbagliato, di chi – come in questo caso – ha ucciso. Rodion Romanovič Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia e la sorella testimone del primo delitto come atto superomistico, come prova di forza del suo stare al di sopra delle regole, come un dio. La colpa sarà la sua prima condanna. Poi l’incontro con Sonja che rappresenta il perdono, la possibilità di riscatto. Sono innumerevoli le letture che si possono proporre di questo romanzo, ma una cosa è certa: quando lo scrittore russo racconta, lo fa sempre senza giudicare. E questo non giudicare, questo racconto che ci fa empatizzare è la più grande scommessa che si possa fare rispetto all’essere umano. Noi siamo Raskol’nikov. Siamo lui. Diventiamo lui. Non significa giustificare il delitto, pensare che quell’atto sia qualcosa che ci appartiene. Ma sentendo la sua colpa, il peso che porta dentro, assistendo e facendo nostro il suo travaglio compiamo un viaggio unico, fondamentale, bellissimo nella vita dell’altro. E fare un viaggio nella vita dell’altro significa aprirci al perdono, alla comprensione, all’idea che la vendetta, la violenza non possono mai essere una risposta adeguata.
Ogni volta che oggi si legge Dostoevskij e si alza la testa dal libro, quello che si vede e si sente è esattamente il contrario. Si giudica, si mette alla gogna, si lincia. Ma è successo qualcosa anche di più grande, di grave, gravissimo, esattamente l’opposto della lettura di Delitto e castigo o dei Fratelli Karamazov: non ci identifichiamo più nell’altro, non siamo capaci di entrare nella sua testa, nel suo cuore, di condividerne le debolezze. Peccato, peccato davvero. La letteratura, potente macchina che ci consente di vivere le vite che non sono le nostre, è stata sostituita dal banale voyeurismo, da lettori e spettatori che guardano dal buco della serratura, senza mai entrare in scena, senza mai provare a recitare le parole più distanti dalle proprie. La letteratura è stata sostituita dalla lettura dei giornali che riportano le intercettazioni, anche quelle che non servono a niente, quelle che dovrebbero essere usate solo nelle aule del tribunale e quelle che dovrebbero invece andare al macero. Sentiamo, leggiamo e l’effetto è quello opposto all’identificazione, alla comprensione, al viaggio nell’essere umano: osserviamo dall’esterno, distanti, giudicanti, pronti a ridere delle altrui debolezze.
Dimentichi che le stesse debolezze sono anche nostre, dimentichi che chi non ha peccato scagli la prima pietra. Le pietre sono quelle virtuali che vengono lanciate sui social, sono quelle che i pm hanno tirato con violenza in tutti questi anni, facendo carta straccia della presunzione di innocenza. Ora (forse) non sarà più così e anche le procure dovranno rispettare le norme minime di civiltà. Ma la nostra testa è cambiata, è cambiato anche il modo di fare cultura, di scrivere, di raccontare, sembra che anche gli scrittori o i registi abbiano perso questa intenzione, questa aspirazione. Non tutti e tutte, certo. Ma la cifra stilistica di questo decennio è ben lontano da quello che Dostoevskij ha fatto con le sue opere, farci toccare la carne viva, l’abisso e la rinascita. In Italia uno degli scrittori che ha resistito a questa tendenza è sicuramente Alessandro Piperno di cui è stato di recente pubblicato da Mondadori l’ultimo romanzo, Di chi è la colpa, che fin da titolo è come se volesse aprire un sfida culturale contro il giustizialismo che ha invaso il senso comune. Ma ancora prima con il dittico Il fuoco amico dei ricordi (Persecuzione – Inseparabili) con cui ha vinto il Premio Strega nel 2012 ha messo a nudo la cultura contemporanea rispondendo al circo mediatico con la tragedia dei sentimenti, con il dolore delle accuse ingiuste, delle sentenze anticipate dai media. Una boccata di aria fresca.
Ricordare Dostoevskij a duecento anni dalla nascita, rileggere le sue pagine, ha soprattutto questo valore: ritrovare la possibilità di specchiarci nella letteratura, di trovare nelle parole dei grandi scrittori il balsamo contro ogni forma di moralismo. «All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K. Sulle scale riuscì a evitare l’incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un’alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio. La padrona dell’appartamento, invece, dalla quale egli aveva preso in affitto quello stambugio, vitto e servizi compresi, viveva al piano inferiore, in un appartamento separato, e ogni volta che egli scendeva in strada gli toccava immancabilmente di passare accanto alla cucina della padrona, che quasi sempre teneva la porta spalancata sulle scale.
E ogni volta, passandole accanto, il giovane provava una sensazione dolorosa e vile, della quale si vergognava e che lo portava a storcere il viso in una smorfia. Doveva dei soldi alla padrona, e temeva d’incontrarla». Questo è l’incipit di Delitto e Castigo, uno dei più famosi della storia della letteratura. Dal generale al particolare: e in quel particolare ci siamo anche noi.
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