Sulle intercettazioni si possono fare complicati discorsi tecnici, e li lasciamo ai tecnici. Si può poi fare una riflessione, diciamo così, storico-statistica. E questa, che è semplice semplice, possiamo farla tutti e si esaurisce in una domanda: in quali ordinamenti lo Stato più fa ricorso a sistemi di controllo della vita dei cittadini, pedinandoli, fotografando i loro movimenti e appunto intercettandone le conversazioni? Nei sistemi autoritari e di polizia. E quali giustificazioni adottano quei sistemi, quando devono rendere conto dei motivi per cui organizzano un simile apparato di controllo pervasivo? Spiegano che si tratta di proteggere la società, il popolo, la rivoluzione.

Non sono giustificazioni pressoché identiche, anche se diversamente denominate, rispetto a quelle che qui si adoperano a sostegno delle norme sulle intercettazioni? Sono identiche, e identicamente denunciano l’idea comune che le sorregge: che sia legittimo perseguire l’ordine sociale tenendo esposti i cittadini all’occhio inquirente del potere. Quando si fa osservare che una pratica di intercettazione come la nostra non ha eguali in nessun Paese civile, si risponde che qui da noi esiste una realtà criminale senza eguali. Già.

Come dire che siccome in Calabria si delinque molto, allora bisogna smontarla come un Lego e procedere con i rastrellamenti pubblicizzati in mondovisione. Ne arresti trecento e qualcuno che l’ha fatta sporca lo trovi, così come becchi qualcuno che la dice brutta quando ne intercetti centomila. Ma è su quel che si diceva all’inizio che bisognerebbe riflettere: la vita dei cittadini è intercettata nei Paesi arretrati, dove si sta peggio, dove la democrazia non c’è o è soltanto un nome. Nei Paesi in cui il potere è in divisa. E non è meglio se la divisa è una toga.