Bisognerà attendere qualche giorno prima di conoscere il destino professionale di Luca Palamara. Ieri in Cassazione si è tenuta l’udienza davanti alle Sezione unite sulla sospensione cautelare dal servizio disposta dalla Sezione disciplinare del Csm nei confronti dell’ex presidente dell’Anm. «Non è configurabile alcuna possibile prosecuzione dell’attività, per la gravità dei fatti e la notorietà della vicenda che ha irrimediabilmente compromesso la credibilità ed il prestigio dell’incolpato», aveva scritto a luglio il collegio presieduto dal laico in quota Cinquestelle Fulvio Gigliotti. David Ermini, presidente titolare della disciplinare, aveva preferito astenersi: Palamara era stato l’anno prima fra gli artefici della sua elezione a vice presidente del Csm.
«I fatti – aggiungevano i giudici – si sono protratti sino a maggio 2018 e sono di una tale consistenza, pervasività e reiterazione». Palamara era finito nel mirino a causa dei suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti da cui, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto alcuni benefit in cambio della nomina di Pietro Longo a procuratore di Gela. Nomina mai avvenuta. Cercando la pistola fumante nelle mani di Centofanti, la Procura di Perugia, competente sui reati commessi dai magistrati della Capitale, iniziò l’anno scorso a scandagliare la vita privata di Palamara. Il procedimento che ha terremotato la magistratura italiana nasce in modo molto casuale: i magistrati di Perugia aprono a maggio del 2018 un fascicolo a modello 45, il fascicolo che consente ai pm di svolgere accertamenti senza dover iscrivere nessuno nel registro degli indagati. Non avendo trovato riscontri sufficentemente solidi sui rapporti Palamara/Centofanti, i pm umbri decidono di passare alle maniere forti disponendo l’intercettazione del telefono dell’ex presidente dell’Anm.

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Le intercettazioni iniziano lo scorso febbraio. Al Gico della Guardia di finanza, incaricato di svolgere le operazioni dal pm Gemma Milani, più che i rapporti Palamara/Centofanti, si spalanca però il mondo fantastico delle nomine del Csm e della lottizzazione correntizia. Scrivono i finanzieri al pm: «Pur non ritenendole allo stato e per quanto noto di utilità/pertinenza, per le ipotesi di reato per le quali si procede, si trasmettono per ogni opportuna valutazione e per le conseguenti disposizioni che la s.v. vorrà impartire anche per le future acquisizioni di analogo tenore». Il telefono di Palamara è incandescente. Centinaia di telefonate da parte di decine e decine di magistrati, molti noti alle cronache per il loro impegno nell’antimafia e per il contrasto della corruzione dei colletti bianchi, che si rivolgono a Palamara per qualsiasi motivo: da un direttivo a un fuori ruolo. Il pm perugino, verosimilmente, rassicura i finanzieri su questi ascolti particolari in quanto il gip, Lidia Brutti, per autorizzare l’uso del trojan, scrive: «Numerose conversazioni intercettate sull’utenza di Palamara evidenziano un attuale ed intenso interessamento del magistrato per le nomine dei capi di alcuni uffici giudiziari (in particolare, le Procure di Roma e Perugia) ed ampi contatti in tale ambito decisionale». Il 22 marzo partono le operazioni per inoculare il trojan nell’Iphone di Palamara. A quel punto il vaso di Pandora è definitivamente scoperchiato. Un turbine di incontri e riunioni che tocca di tutto, dalla dirigenza di Unicost ai vertici di via Arenula. Fra i colloqui ascoltati dai finanzieri finiscono anche quelli, ormai celebri, con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. E sulla loro utilizzabilità o meno sarà interessante la decisione della Cassazione. «Errori sicuramente sono stati commessi ma facevo parte di un sistema». Si è sempre difeso Palamara, rivendicando il proprio operato. I colleghi, esplosa l’indagine sui giornali, hanno preso subito le distanze dall’ex leader di Unicost, affermando di essere sempre stati estranei a questo modo di fare. Peccato che le telefonate raccontino una realtà molto diversa.