Basta slogan da primo maggio
Rischia la povertà anche chi lavora a tempo pieno: l’Italia non riesce a creare lavoro decente

Per parlare di “emergenza del lavoro”, come dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non servono molte parole. Basta analizzare i dati. Il paradosso italiano è l’aumento del numero degli occupati ma, contemporaneamente, non cresce il valore del Prodotto interno lordo. Senza scomodare l’economia politica, è intuitivo pensare che se più persone lavorano vuol dire che ci sono più stipendi in circolazione, più consumi, più produzione. Dunque, più ricchezza. Eppure questo in Italia non accade. Il motivo principale è uno solo: il sistema produttivo del Belpaese crea lavoro povero o a basso valore aggiunto.
L’allarme Eurostat
L’ultimo allarme, infatti, è stato diffuso da Eurostat. Secondo l’istituto di statistiche europeo, in Italia sale il rischio di povertà tra le persone che lavorano anche se impegnate a tempo pieno. Nel 2024 gli occupati con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale – al netto dei trasferimenti sociali – sono quasi il 10%, in aumento dall’8,7% registrato nel 2023. Una percentuale più che doppia di quella della Germania (3,7%). La povertà lavorativa sale in Italia soprattutto per i lavoratori indipendenti, tra i quali il 17,2% ha redditi inferiori al 60% di quello mediano nazionale (era il 15,8% nel 2023), mentre per i dipendenti la quota sale all’8,4% dall’8,3% precedente.
Le cause
Come mai, dunque, in Italia si crea lavoro povero? I motivi sono diversi. Il numero degli occupati in termini assoluti riflette la conversione di contratti da tempo determinato a tempo indeterminato. In pratica, non aumenta il PIL perché non aumentano gli stipendi dei “nuovi assunti”. Il secondo motivo è legato al numero di ore lavorate. Nel corso del 2024, spiegano i dati Cnel, esse sono diminuite dello 0,3%. Se lavoro meno, guadagno meno. Dei nuovi occupati, poi, solo il 16% può contare su un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
L’Italia non riesce a creare lavoro decente
Sempre analizzando i dati del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro, presieduto da Renato Brunetta, un contratto a termine su tre viene cessato dopo un mese. Mettendo insieme questi dati e aggiungendo un crollo della produttività, appare chiaro come mai l’Italia non riesca a creare lavoro “decente”, cioè quello che consente ai cittadini di vivere con tranquillità.
Lontano dalla media europea
Non dimentichiamo, infine, che i salari reali degli italiani hanno cominciato una timida ripresa solo nel corso del 2024. Nel 2023, infatti, essi sono calati del 2,8%: all’aumento nominale, pari al +2,9%, bisogna togliere il valore dell’inflazione, cioè il 5,7%. Lo scorso anno le cose sono leggermente migliorate. L’incremento in busta paga è stato del 3,1%, mentre il costo della vita si è fermato a +1,3%. Pertanto l’aumento del salario reale medio è stato dell’1,8%. Un valore ancora una volta lontano dalla media europea, che segna un rotondo +2,3%.
Non basta il salario minimo
Un’attenzione a parte merita la produttività. Un intervento esogeno per aumentare i salari, mettiamo una legge che introduca il salario minimo, avrebbe l’effetto di far crescere l’inflazione o favorire il sommerso. Per aumentare gli stipendi è necessario far crescere la produttività media del sistema Italia. Da troppo tempo, infatti, questo parametro non è preso in considerazione nel Belpaese. Forse è arrivato il momento di creare un tavolo di concertazione che al proprio centro abbia la produttività e la crescita dei salari. Sempre che si decida di intervenire seriamente sul tema del lavoro e non si lasci tutto a uno slogan del Primo Maggio.
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