Era prevedibile. Il blocco delle attività produttive sta trascinando l’economia in una preoccupante recessione. I singoli governi stanno cercando di ridurre i danni intervenendo, tra le altre cose, con garanzie pubbliche sui prestiti per consentire al sistema bancario di fornire la liquidità necessaria alle imprese e alle famiglie che, altrimenti, sarebbero schiacciate dalla crisi. In Italia i provvedimenti annunciati dal governo dovrebbero andare incontro alle piccole e medie imprese più diffuse che altrove e, insieme, considerare lo sforzo che le banche hanno compiuto negli anni passati per rientrare delle esposizioni più problematiche frutto del sostegno all’economia reale che le stesse banche – in particolare quelle del territorio – hanno garantito in anni difficili. È tutto necessario ma, evidentemente, non basta.

Le oscillazioni e l’alta volatilità nelle principali piazze borsistiche mondiali su valori che non si ripetevano dalla crisi del 2008 rendono evidente la serietà del problema del rischio di mercato per le banche europee. Quelle maggiormente a rischio sono le banche dei paesi cosiddetti “rigoristi” che detengono nei propri bilanci una quota di derivati sul totale dell’attivo al di sopra della media europea e che può arrivare a un’esposizione pari a sei volte il loro patrimonio netto. È il caso di Deutsche Bank che in questa classifica di rischiosità – stilata da uno studio del Cer, il Centro Europa Ricerche – si colloca al primo posto.

La classifica non si modifica se si considera il rapporto tra le voci oggetto di maggiore discrezionalità in termini di valore da parte della banca (attività di livello 2 e 3) e il suo patrimonio o, in alternativa, il livello dell’indice Srisk che misura quale deve essere l’aumento di capitale in caso di crollo dei mercati azionari e che, sempre nel caso di Deutsche Bank, stima un fabbisogno aggiuntivo di capitale di oltre il 150%. La Bce è intervenuta attraverso l’acquisto di 750 miliardi di euro di titoli. La mossa ha rasserenato solo in parte i mercati azionari, i quali hanno continuato a registrare perdite considerevoli: nel mese di marzo la borsa di Milano ha perso quasi il 23%, quella francese il 19,8%, quella tedesca il 19,3% e quella spagnola il 24,3%.

Le tensioni, dunque, continuano a essere forti anche per l’alto tasso di incertezza e per la distanza tra le posizioni dei paesi europei divisi in due fronti: quello rigorista dei paesi nord-europei come Olanda, Finlandia, Austria e Germania e l’altro, capeggiato da Italia, Francia e Spagna che chiedono una condivisione degli strumenti di finanziamento. La crisi in corso rende evidente un problema importante per l’intero sistema bancario. Nei paesi “rigoristi” o, come amano autodefinirsi, “frugali” le principali banche, per effetto di una politica sbilanciata verso la finanziarizzazione e poca attenta all’economia reale, sono più soggette ai rischi e alla crescente volatilità dei mercati azionari.

Per il motivo esattamente opposto, questi rischi per le banche italiane sono nettamente inferiori grazie alla loro maggiore predisposizione nei riguardi dell’economia reale rispetto alla finanza. Un orientamento, questo, che caratterizza ancora di più e in misura più radicata le banche del territorio e, fra queste, le Banche popolari, così come avviene per altre realtà cooperative europee che fanno del localismo la loro ragion d’essere. Naturalmente questo non basta a garantire la tranquillità del sistema bancario italiano visto che la crisi ha bloccato prima di tutto l’economia reale.

Così come non bastano gli interventi assunti fino a ora dalla Bce e dal Governo italiano, necessari ma non certo sufficienti. Sono urgenti azioni drastiche e concrete a sostegno del credito alle imprese e regolamentari per facilitare la possibilità di erogarlo da parte delle banche. Soltanto in questo modo, un sistema bancario contraddistinto da un elevato grado di biodiversità, quale condizione necessaria di stabilità, potrà essere al servizio dell’economia reale, del tessuto produttivo e della, speriamo prossima, rinascita.