L'editoriale
La profezia di Nietzsche si è avverata: il virus fa uscire l’indifferenza dell’Europa

L’Europa sta morendo sotto l’attacco del virus. La Presidente della Commissione, dopo 45 giorni nei quali ha trovato il tempo per dibattere con Greta, si è accorta dell’Italia con la insopportabile dichiarazione enfatica: siamo tutti italiani, che ricorda altri “siamo tutti etc.”, espressione sempre travolta dal vuoto della cattiva retorica. Sarebbe stata necessaria una invocazione diversa: bisognava dire, magari, “siamo tutti europei” per dare un piccolo segnale alla coscienza di un continente in disgregazione, e agire in conseguenza.
Ma da troppo tempo questa espressione è impronunciabile perché qualcuno se ne potesse ricordare. Si sta disgregando la realtà dell’Europa, ognun per sé, le mascherine per l’Italia finora bloccate ai confini franco-tedeschi, con violazione del mercato comune ovvero dell’unica cosa che è rimasta in piedi. Il resto già non c’era più, se non in negativo: quello che non ci interessa, quello che non facciamo, questo “ci” unisce, e non voglio deviare dal discorso principale, ma vedere i campi profughi di Lesbo e pensare che la loro vicenda sta dentro le nostre frontiere, fa solo rabbrividire. Il virus dell’indifferenza e della ferocia è confinato nelle sue baracche, l’inferno tra noi, con i fili spinati intorno. Dio è morto, potrebbe essere la nuova sigla dell’Unione. La profezia di Nietzsche si è verificata.
Ma l’altro virus? Quello che ci cambia la vita? Quello che sta riducendo a poco la nostra esistenza? Quello che sta fermando il mondo? Quello che sta facendo collassare le economie? Che annienta le relazioni umane? Si sono escogitati vari criteri di difesa: anzitutto quello più semplice dell’ “ognun per sé”, con relativa chiusura di traffici e di circolazioni, fine di Schengen, anche se il virus, irresponsabilmente, non lo sa e quindi continua a camminare, come se gli Stati che compongono l’Europa non avessero deciso nulla.
Ma ecco giungere finalmente la parola chiave: si concede ”flessibilità” sui conti. Qui si sfiora il surreale e viene scopertamente alla luce il tarlo che assedia dall’interno l’Europa da vent’anni circa. L’egoismo degli Stati, politicamente rappresentato, da tempo, dalla forma variamente populistica della politica, mostra ognuno con il proprio gruzzolo ben conservato. Non ipotizzo mutualizzazioni dei debiti, ma parlo di bilancio autonomo dell’Unione, per cui il massimo che si può dire è: vi permettiamo un po’ di spesa in più, e ci mancherebbe che ciò fosse negato!, il resto a ramengo.
Cifre ridicole, surreali rispetto a quelle che saranno le esigenze assolutamente drammatiche che ci attendono. Questo insuperabile tallone di Achille è ciò che rischia di distruggere ciò che resta di Europa, nella stretta tra egoismi di bilancio che non prevedono risorse comuni, sottratte ai vincoli, per il governo dello stato d’eccezione. C’è uno stato d’eccezione di fatto, non sorretto da una politica che lo preveda né da nessun segnale in questa direzione. Qui il sintomo anche di principio della disgregazione. La parola ”flessibilità”, pronunciata con religiosa compunzione dal commissario italiano Paolo Gentiloni, ne è la clamorosa conferma.
Ma per quali ragioni un continente come l’Europa sia su questo abisso nichilistico non è cosa che nasce oggi, ce lo ricorda la ristampa de “Il tramonto dell’Occidente”di Oswald Spengler, di cui molto si è parlato in questi giorni, il libro che, pubblicato nel 1918, prevedeva e argomentava quello che il titolo proclama. La nuova traduzione giunge a proposito, non perché si possano prendere sul serio tutti i ghirigori storico-concettuali messi in opera dall’autore, ma perchè il tema di oggi è questo, con clamorosa evidenza. L’economia non decide mai niente da sola, tanto meno il mercato. C’è sempre qualcosa che viene prima, e quello che viene prima è la cultura, l’idea di sé; sono i principi costituenti, le idee che formano quella che si chiama civiltà e che poi si incarnano anche in un’economia, con delle corrispondenze tutt’altro che meccaniche.
L’Europa oggi ha paura di sé, ha paura delle responsabilità che le piomberebbero addosso se fosse unita, e quindi non parla, non ha un linguaggio in cui esprimersi. Si è tanto idealmente impoverita da esser diventata un luogo marginale della storia, vittima della propria viltà, come è stato detto, vittima di irresolutezza, di incapacità di decidere e lascia, da molto tempo, che tutto ribolla in un’acqua stagnante.
Ma è l’Occidente, non più centro del mondo, che non sa né dove sta, né che cosa sia né dove andare, e si divide, spezza e incrina le ragioni che hanno dato origine al proprio stesso nome. C’entra questo con l’invisibile virus? Non direttamente, certo, ma forse in un altro significato sì: c’entra se oggi viene meno il senso di una battaglia solidale, ma se, soprattutto, domani, non si comprenderà che saremo in un altro mondo, esposto agli abissi globali, che avrà bisogno di risposte nuove, e che il vero rischio sarà l’afasia, l’introversione, l’entropia; e con esse, il possibile tramonto di una civiltà che ha avuto il senso dell’universalismo, il principio che la aveva fondata, anche quando sapeva di tradirlo. Oggi questa coscienza è scomparsa.
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