Dipinto come “un amministratore coinvolto” in affari illeciti con le cosche del Crotonese, dichiarato “incandidabile” dal Tribunale, messo in panchina non dai suoi elettori o dai partiti ma dalla magistratura: alla fine Salvatore Divuono, ex primo cittadino di Cutro (Crotone), 66 anni, esce dal tritacarne della giustizia con una vittoria. Per la Corte d’Appello di Catanzaro «non risulta alcuna condotta posta in essere dal sindaco idonea a rivelare, in maniera significativa, una collusione tra lo stesso e la criminalità organizzata». Le 12 pagine della sentenza si concludono con l’esito richiesto dai suoi legali, gli avvocati Tiziano Saporito e Fabio Rizzuti: la dichiarazione di non sussistenza dei motivi di incandidabilità che invece avevano convinto i giudici di primo grado. E il riconoscimento di una vita politica rivolta alla trasparenza, alla legalità e all’antimafia, quella vera, non di facciata o di parata ma di azioni concrete. Già da quando era assessore alle finanze e poi da sindaco.

Un risultato processuale opposto rispetto a quanto stabilito il 25 marzo scorso, quando Tribunale di Crotone- sezione Civile- esce con un dispositivo che decreta l’impossibilità per l’ex primo cittadino di presentarsi alle prossime elezioni, comunali, regionali o provinciali o circoscrizionali in Calabria.

A portarlo in giudizio pochi mesi prima era stato il ministero dell’Interno: secondo l’Avvocatura dello Stato, Divuono era un “amministratore coinvolto” del Comune di Cutro, commissariato per mafia nell’agosto del 2020, dopo l’operazione “Thomas” della Dda di Catanzaro. Con il blitz del 15 gennaio 2020, i magistrati portano alla luce un presunto dialogo costante tra la cosca Grande Aracri e i palazzi del potere del crotonese, tra cui proprio Cutro. Divuono non è indagato e non lo sarà mai.

Il tempo passa e a giugno del 2020 lo stesso sindaco rassegna le dimissioni. Le fibrillazioni interne alla sua maggioranza (una lista civica) lo costringono a mollare. Arriva il commissario prefettizio ma dopo due mesi il Governo manda i commissari antimafia per valutare il livello di permeabilità della criminalità organizzata negli uffici comunali.

Per i giudici crotonesi che esaminano il caso di Divuono in primo grado, l’arrivo degli sceriffi antimafia è già di per sé un indizio sufficiente per arrivare una conclusione: la presunta cattiva gestione del Comune, non improntata su criteri di legalità e buon andamento, ha trovato «una naturale prosecuzione nel corso dell’amministrazione condotta dal sindaco Divuono». Di conseguenza, l’invasione di campo: “È incandidabile”.

La palla passa ai magistrati di secondo grado, che ribaltano la decisione andando a fondo tra le carte, i documenti e le istanze della difesa: «Non si evince un chiaro collegamento tra l’operato dello stesso sindaco sul piano amministrativo e l’azione delle consorterie criminose, né un asservimento del medesimo alle volontà e agli interessi delle cosche locali, né, nello specifico, è stata evidenziata una frequentazione del Divuono con esponenti di spicco delle consorterie locali».

Un legame tra l’ex sindaco e le cosche che non si è manifestato in nessuna occasione, soprattutto nel campo minato degli affidamenti pubblici, terreno fertile per le agenzie criminali. Anche in questo caso, scrivono i giudici, non si evince una responsabilità del Divuono nelle attività amministrative ritenute irregolari. Perché c’è un principio che vale nel giudizio di incandidabilità: la stretta correlazione che deve esistere tra le azioni del soggetto e il favoreggiamento alle cosche. Non astratta, teorica o immaginaria ma reale e verificabile. Invece, per il caso Divuono, non c’è nessuna collusione ma solo un’ombra che ha coperto ingiustamente la sua carriera politica e la sua vita. Dopo la decisione che ha il profumo della riabilitazione politica, l’ex sindaco ha detto di essere «contento della sentenza che rafforza la fiducia che ho sempre avuto nelle Istituzioni dello Stato. Contento anche che i giudici hanno evitato l’errore di dichiararmi incandidabile perché sono una persona per bene».