Un giorno in tribunale, ovvero quando l’emiciclo si trasforma in Aula di giustizia. Con implacabili pubblici ministeri e rappresentanti dell’accusa molto motivati. Ieri poi un “super Tuesday” per gli appassionati di prevedibilissimi reality show, con ben due ministri sotto il confortevole torchio dei deputati: Carlo Nordio per la vicenda del libico Almasri e la titolare del Turismo Daniela Santanchè, che per la prima volta apre alla possibilità di un passo indietro in vista della seconda udienza. Intanto il paradosso continua, con un rito sempre più stanco: la mozione di sfiducia è il classico boomerang, che rafforza la coalizione di governo e disperde gli ardori delle minoranze. Che cosa non si fa per ottenere qualche titolo nei tg…

La discussione

Martedì, ovvero l’inizio della settimana parlamentare, è il giorno perfetto per le discussioni generali sulle sfiducie: consente ai parlamentari di tornare a Roma con calma, senza la pressione delle segreterie. Così l’avvio della seduta sul Guardasigilli avviene in un’Aula quasi deserta, attenzione e clamore, questi sconosciuti. Il ruolo dell’accusa lo prende subito il dem fiorentino Federico Gianassi, andando su toni melodrammatici: “L’Italia ha bisogno di un ministro della Giustizia, non di un pessimo avvocato difensore di uno stupratore”. Per non essere da meno, e anzi per alzare un po’ il livello delle accuse, il M5S schiera in campo un numero uno, Cafiero De Raho: “Lei, non dando seguito al mandato di arresto di Almasri emesso dalla Corte Penale Internazionale, non ha osservato la Costituzione e una legge dello Stato”. Nella pletora degli aspiranti “fucilatori” entra Italia Viva, con Roberto Giachetti: “La ragione per cui voteremo questa mozione di sfiducia è tutta politica e non giudiziaria: il suo operato è un fallimento totale”. Lo spazio dello sfogo finisce; il ministro risponderà, in sede di replica, quando riprenderà l’esame della mozione di sfiducia, al suo ritorno da una missione in Argentina.

Il discorso di Santanchè

Passa qualche ora e torna la gogna su Santanchè, con un fuori programma di un certo rilievo: la sua autodifesa è molto sincera e riscuote l’applauso della maggioranza. “Per voi sono l’emblema di ciò che detestate – aggiunge rivolta alle opposizioni – Voi non volete combattere la povertà, ma la ricchezza”. Poi arriva al punto dolente: “Ho la consapevolezza che a breve ci sarà un’altra udienza preliminare. È certo che in quella occasione farò una riflessione, perché è giusto che la faccia per poter valutare anche le mie dimissioni”. Passaggio subito colto da Fratelli d’Italia. “Ho sempre apprezzato la passione politica della Santanchè, e ho apprezzato quanto detto alla fine del suo intervento, che nel caso di un suo rinvio a giudizio nell’altro processo farebbe una seria riflessione e potrebbe anche lasciare. Questo le fa onore”, dice il deputato meloniano Andrea Pellicini in dichiarazione di voto.

Gli affondi

Il centrodestra è in Aula con 10 ministri. Resta un po’ di tempo a disposizione dell’accusa, che fa salire sul podio i suoi big, Giuseppe Conte ed Elly Schlein. Il leader pentastellato si gioca gli ultimi spiccioli per accaparrarsi qualche titolo: “Sopra di lei c’è una responsabile ancora maggiore: la presidente Meloni che l’avrebbe dovuta far dimettere”. Poi l’affondo a effetto: “Odiamo la ricchezza? Ma non dica baggianate, voi fate la guerra ai poveri. Sa cosa odiamo: la disonestà. A noi interessa la responsabilità politica”. La segretaria del Pd tenta invece di percorrere la strada dell’ironia: “Mentre lei viene qui a difendere le borsette, chi difende gli italiani dalle bollette?”. In pratica, dall’Aula di tribunale al cabaret. E ancora: “Davanti ad accuse così gravi, per non ledere all’istituzione che rappresenta, lei avrebbe dovuto dimettersi”. Lapidario il capogruppo di Italia Viva, Davide Faraone: “Lei è stata sfiduciata da Giorgia Meloni”. Il sipario si chiude, finisce come previsto: l’Aula respinge la fiducia con 206 no, 134 voti a favore e un astenuto.