Il balbettio di buon senso che oggi si leva solo per convenienza
Caso Almasri, Santanchè e Albania, quando l’abito garantista “casca male” perché si nutrono pm forcaioli e ideologizzati

Le cronache di questi giorni ripropongono un repertorio già visto, almeno se al governo c’è una coalizione di centrodestra. La magistratura interviene, indaga, distribuisce avvisi di garanzia, eccepisce su atti di governo, annulla provvedimenti, sostiene e alimenta ogni forma di gogna mediatica. E i politici di centrodestra se ne lamentano, sbuffano, si indignano per una implacabile giustizia a orologeria, contestano ai giudici la mancanza di senso dello Stato. E li invitano a candidarsi, cosa che, peraltro, molti magistrati fanno da tempo, senza rispettare alcuna pausa tra un incarico e l’altro.
Il caso Almasri, così come la nuova edizione dello show albanese dei migranti andati e riportati, ripropongono quel rapporto tra politica e magistratura che definire difficile è un eufemismo. Ma l’abbraccio mortale del potere, che comporta il ripetitivo cortocircuito tra politica e magistratura si alimenta di un comune brodo di coltura, fatto di invidia sociale e di giustizialismo generalizzato. Anche quando qualche politico si veste di garantismo, si vede lontano un miglio che si tratta di un abito che non gli si addice: un capo di abbigliamento preso frettolosamente in prestito al mercato delle occasioni vantaggiose. Nel caso di Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano siamo ancora al di qua della linea del garantismo. L’etichetta scatta quando c’è un minimo di parvenza di credibilità nelle accuse formulate nel corso di un’indagine o nella richiesta di rinvio a giudizio. Senza voler fare il mestiere altrui, è evidente che il caso Almasri non ha alcun elemento che possa far supporre indagini serie e circostanziate. Può essere al massimo una opinabile scelta di Ragion di Stato. Roba politica per definizione.
Ma pochi giorni prima dell’ostensione pubblica dell’atto ricevuto dalla premier Meloni (e compagnia) le cronache erano state invase dalla querelle (solo rimandata, ma non sopita) che vede protagonista la ministra del Turismo, Daniela Santanchè. Oggetto di indagine, di rinvio a giudizio e di richiesta di dimissioni da parte dell’opposizione e forse di una tacita fetta della maggioranza di governo. Di fronte alle geremiadi del garantismo – lecite, più che sensate – c’è chi ha riproposto le numerose richieste di dimissioni preventive che la ministra Santanchè aveva pronunciato quando sedeva sui banchi dell’opposizione. E c’è chi ha rammentato una frase sibillina dell’attuale capo del Governo, Giorgia Meloni, che – sempre ai tempi dell’opposizione – sosteneva: “Viviamo in un tempo in cui la politica per recuperare la fiducia dei cittadini deve stare un passo avanti alla società e dare il buon esempio”. Il “buon esempio” era dimettersi al primo avviso di garanzia, senza aspettare nemmeno il rinvio a giudizio: della norma costituzionale che definisce innocente chi non abbia ricevuto una condanna in via definitiva non c’è mai stata traccia nel pensiero della politica italiana, giustizialista e forcaiola, senza distinzioni di parte o di partito.
Oggi si suona tutta un’altra musica: in occasione del rinvio a giudizio di Daniela Santanchè e della rituale richiesta di dimissioni che si è levata da Pd e Movimento 5 stelle, Giorgia Meloni si ricorda della Carta fondamentale su cui si fonda la Repubblica e della presunzione di innocenza. Santanché è parte in causa. Da virago accusatrice a presunta innocente: oggi riscopre il tepore che assicura l’abbraccio caldo del garantismo. La convenienza fa brutti scherzi alla memoria: vale per l’ayatollah leghista, Salvini, che dal suo minareto di via Bellerio ha sempre tuonato minacce contro chi aveva in sorte un incrocio con qualche indagine giudiziaria, e oggi dalla poltrona di vicepremier esibisce gli argomenti della difesa di uno dei principali diritti dell’individuo: non basta un’accusa per essere colpevoli.
Il centrodestra avrebbe dovuto fare tesoro – dal 1993 – dell’accanimento contro Berlusconi e i suoi Governi, quando gli avvisi di garanzia (non i rinvii a giudizio) sono diventati strumenti della politica. E ancor prima, la stagione di “mani pulite”: quando la magistratura ha azzerato partiti e politici, tranne che nel Pci. Ma in Italia l’abito del forcaiolo è stato indossato con orgoglio non solo dai “grillini” – che ne hanno fatto persino un vanto, costruendo una stagione di consenso popolare – e nemmeno solo dagli eredi più stalinisti del Pci. Da Josefa Idem a Maurizio Lupi sono tante le vittime di un Pd che forse aveva smesso lo sguardo feroce di chi mangia bambini, ma non si era sottratto al moralismo che impone dimissioni a prescindere (se non riguardano i propri tesserati).
Ora, si dirà che non ha senso rimestare nel passato; ci possiamo fermare con fiducia davanti al cambiamento dichiarato nei giorni della Santanchè? Possiamo dare credito a una conversione sincera di quel numeroso manipolo di giustizialisti, che ha composto trasversalmente tutti gli schieramenti politici? C’è da crederci? Ma se li nutrite voi, questi magistrati forcaioli e ideologizzati, con un giustizialismo sempre forte e abbondante, che si converte in garantismo solo come ultima (e conveniente) ratio. Io credo che si possa accettare questa trasfigurazione a una condizione: che si chieda scusa. Salvini, Meloni, Letta (Enrico), Grillo (e Conte), Santanchè chiedete scusa. Chiedete scusa alle persone che avete infangato, alle famiglie che avete distrutto, alle reputazioni che avete bruciato. Chiedete scusa; solo allora si potrà ascoltare con attenzione (e magari con rispetto) il balbettio di buon senso che oggi si leva solo per convenienza.
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