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L'intervista
Scuola, Toccafondi (Italia Viva): “Troppe regole imposte dall’alto, gli insegnanti sono disorientati”
Le priorità per il referente istruzione di Italia Viva: scegliere i migliori docenti, rafforzare l’autonomia scolastica e rilanciare il dialogo tra scuola e lavoro
Gabriele Toccafondi, ex sottosegretario all’Istruzione nei governi Letta, Renzi e Gentiloni. «Tutto cambiava continuamente – sorride – io rimanevo sempre lì». Oggi è referente per l’istruzione di Italia Viva e ci illustra le priorità del suo partito sul mondo della scuola, nell’ambito del ciclo di conversazioni sul tema avviato dal Riformista. «Sa cosa abbiamo a cuore per la scuola? La cosa che dovrebbe essere la più naturale e ovvia, ma non va data per scontata, e cioè che la scuola va fatta per i ragazzi, non per “altro” o per “altri”, per questo deve puntare sempre al meglio e a migliorarsi, non alla mediocrità. Se questo è il suo scopo, diventa fondamentale la formazione iniziale e quella in itinere degli insegnanti, ma soprattutto diventa decisiva la loro selezione: devono poter entrare i migliori, i più motivati. Le chiamate per tre anni e poi le sanatorie fanno entrare i migliori? No, servono concorsi e servono ogni due anni perché tutti sanno quanti insegnanti formati ed abilitati occorrono alle scuole. Va da sé una conseguenza ulteriore, non meno rilevante: se vogliamo avere i migliori insegnanti, occorre garantire loro uno stipendio che possa riconoscere l’impegno di tutti e che tenga anche conto di valorizzare chi ha più responsabilità ed impegni. Non possiamo continuare a perdere i più bravi e motivati perché allettati da prospettive di lavoro più gratificanti».
Come sta operando, in tal senso, il Governo Meloni?
«Su alcuni aspetti ha messo in campo azioni interessanti, come il 4+2 (ciclo quadriennale + Istituti Tecnici Superiori). Ne approvo l’idea, anche se è stata gestita malissimo per la tempistica e per la mancanza di dialogo sociale e politico, producendo i risultati deludenti dell’anno scorso, con un numero scarso di iscrizioni. Anche per quanto concerne la parità scolastica devo riconoscere che il Governo non si sta tirando indietro, proseguendo l’immissione di risorse avviata nel 2013. Queste piccole cose possono essere condivise, ma quello che non vedo è una vera visione di scuola, una vera prospettiva di riforma organica. La legge di bilancio ne è la dimostrazione».
Perché?
«Perché dal 2008 tutti i governi hanno incrementato risorse sulla scuola, con finanziamenti strutturali o assunzioni, mentre questa legge di bilancio è la prima a invertire la rotta. I tagli non sono elevati ma ci sono, a partire da quelli sul personale docente e soprattutto sul personale non docente. Sia chiaro, non sono cifre enormi, ma più che l’entità del taglio mi fa riflettere l’inversione di tendenza, che rappresenta un brutto segnale».
Le rilancio le obiezioni degli altri referenti istruzione dei partiti di opposizione, che vedono elementi di autoritarismo nelle scelte governative sulla scuola e non solo (diario, voto di condotta, divieto di manifestazioni, divieto dello smartphone, etc). Cosa ne pensa?
È fondamentale l’educazione al rispetto dei docenti, dei compagni, degli immobili, per questo le regole servono e vanno fatte rispettare, anche con rigore. Non sarò certo io a polemizzare su questo. Come è evidente, però, si tratta di circolari, slogan estemporanei, tra loro disuniti. Come Le dicevo prima, manca un’idea di scuola. E al di là della mia percezione, che conta relativamente, questa estemporaneità è percepita dagli stessi docenti, che si vedono paracadutare continuamente queste circolari dall’alto, che li obbligano a fare tutto e il contrario di tutto da un giorno all’altro».
Come si può invertire la rotta?
«Più che una riforma dall’alto, io credo in una più concreta attuazione dell’autonomia scolastica. Sono i ragazzi, i docenti e i dirigenti a vedere le esigenze della scuola più di qualsiasi ministro, di qualsiasi colore politico, che si trova in viale Trastevere. Dopo la riforma di un grandissimo ministro riformista, quale è stato Luigi Berlinguer, quell’idea di autonomia, adesso, dopo 25 anni, può essere sviluppata ulteriormente».
Potevate farlo voi…
«E infatti nella Buona Scuola c’era un tentativo di rilancio dell’autonomia, del merito, della valutazione, della “chiamata diretta”, ma è stata subito messa nel cassetto dal governo successivo, il Conte 1. La legge 107 poteva essere fatta meglio sicuramente ma almeno aveva un’idea di scuola, dopo c’è stato solo chi ha smantellato senza proporre niente».
Nella Buona Scuola aveva un certo rilievo anche l’Alternanza Scuola Lavoro, poi subito “moderata”, sempre dal Conte 1, nella versione dei cosiddetti Pcto?
«Esattamente. Non bisogna aver paura di far dialogare i ragazzi con il mondo del lavoro, non si tratta di un “avviamento al lavoro”, ma di comprendere nella realtà quello che si studia in teoria. Poco meno della metà degli studenti è iscritta a istituti tecnici e professionali, dove i ragazzi dovrebbero esercitare la loro attitudine alla manualità, al fare, al lavoro. Invece cosa abbiamo creato? Un liceo mascherato, costringendo questi studenti a frequentare un biennio con 14-16 materie e con zero ore di laboratorio. Poi ci sorprendiamo se i ragazzi scappano. Chi sceglie una scuola più a contatto col mondo del lavoro deve avere l’opportunità di viverlo, provarlo, vederlo sin da subito, mettere le “mani in pasta” come mi gridò un giorno un ragazzo. Io spero che il Parlamento proponga di modificare il piano studi soprattutto del biennio dei professionali, dove è fondamentale ridurre le materie e aprire i laboratori. Materie come diritto, economia, fisica e altro sono utili gli ultimi anni quando i ragazzi stanno per scegliere cosa fare e questo sono gli stessi studenti a chiederlo da anni. Non ci sono scuole di serie A o scuole di serie B, ci sono le Scuole ed ogni ragazzo possiede un talento che scopre insieme ai suoi insegnanti».
Come vede i giovani di oggi, anche se la lente del politico non è quella dell’esperto o dell’insegnante?
«È vero, ma accolgo la domanda con grande interesse, perché io stesso mi interrogo molto su questo e per capirlo bisogna entrare nelle scuole, nelle classi e dialogare con doventi e soprattutto i ragazzi. Noi adulti tendiamo a classificarli (choosy, bamboccioni, smarriti, “sdraiati”) e invece sono ragazzi reali, che hanno domande serie e sanno di vivere in una stagione non facile e quindi, in modo più o meno esplicito, chiedono un rapporto educativo, e cioè intendono la scuola come un luogo di rapporti non semplicemente di trasmissione di nozioni. Durante la Dad mi ha sorpreso in positivo che sono stati i ragazzi a chiedere, anche scioperando davanti alle scuole, che la scuola tornasse in presenza. Devo dire che, in questo senso, qualcosa si muove anche nell’opinione pubblica: si coglie sempre di più, anche da parte di esperti e intellettuali, che la scuola non è una mera questione tecnica, ma percorso educativo. Per questo servono veri maestri».
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