Matteo Concetti, 21 anni, detenuto nel carcere di Montacuto (Ancona), aveva problemi psichiatrici abbastanza seri. Invece di curarlo lo hanno messo in isolamento. Ovviamente la situazione è peggiorata. La madre aveva scritto a Ilaria Cucchi: «Mio figlio ha bisogno di aiuto». Troppo tardi. In un freddo giorno di gennaio Matteo si è impiccato. Si è dato la morte annodando il lenzuolo intorno al collo e spingendo con un calcio lo sgabello su cui era salito. Per lo più è questo il modo di morire di tanti, troppi detenuti. S’impiccano. Come un altro ventenne, Patrick Guarnieri, che lo ha fatto nel giorno del suo compleanno la settimana scorsa in una celletta di Castrogno (Campobasso). Se uno a vent’anni si toglie la vita pur di non dover più sopportare le angustie del carcere vuol dire che quel carcere non gli dà speranza alcuna di migliorare la propria esistenza. Lo peggiora, anzi.

Non è vita, altro che la rieducazione prescritta dalla nostra Costituzione. Non si respira. C’è troppa gente, una montagna di disperazione che sovrasta qualunque speranza di rifarsi una vita. Il sovraffollamento in certi casi è insopportabile: non è la causa diretta di un suicidio ma certo ti toglie la possibilità di parlare, di pensare liberamente. Michele Scarlata, 66 anni, non ha retto in un carcere difficile come quello di Imperia: troppe persone, che spesso è l’altra faccia della solitudine. La depressione, chi la cura in carcere? Nemmeno dinanzi a casi di detenuti che hanno provato e riprovato a togliersi la vita si interviene, eppure i segnali spesso sono sin troppo chiari. Capirai, un detenuto depresso, sai che notizia. Gli psicologi sono drammaticamente pochi: «Gli hanno giustamente aumentato lo stipendio ma a costo zero, cioè fanno meno ore. Il calo è all’incirca del 40 per cento», ci spiega Ornella Favero, coordinatrice di “Ristretti orizzonti” di Padova che si occupa di questi problemi da anni.

Il problema di fondo è che la politica ammanta di una certa inevitabilità questa condizione che porta al suicidio dei detenuti. Lo stesso ministro Carlo Nordio ha dato questa impressione parlando, improvvidamente, di “malattia”. Ha commentato il segretario della UilPa (un sindacato della polizia penitenziaria) Gennarino De Fazio: «I suicidi in carcere saranno anche simili a una malattia, come sostiene il Guardasigilli, Carlo Nordio ma in questo caso il Ministro della Giustizia deve essere il medico e non l’addetto alle pompe funebri. Da Nordio ci aspettiamo la terapia capace, quanto meno, di lenire la patologia. Del resto, basta osservare i sintomi per fare la diagnosi. Ci riferiamo al sovraffollamento detentivo, che sfiora il 130 per cento, alle carenze organiche, 18mila operatori in meno solo per la Polizia penitenziaria, alle deficienze strutturali, infrastrutturali, logistiche e negli equipaggiamenti, alla disorganizzazione e a molto altro ancora». Il governo non sta facendo nulla.

Sempre De Fazio: «Il ministro Nordio e il governo Meloni prendano compiutamente atto della grave emergenza e varino un decreto carceri per consentire cospicue assunzioni straordinarie, con procedure accelerate, e il deflazionamento della densità detentiva pure attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei detenuti malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti. Parallelamente, il Parlamento approvi una legge delega per la riforma complessiva del sistema d’esecuzione penale, la reingegnerizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria. Lo ripetiamo, non c’è più tempo».

Non si suicidano solo i giovani. Si suicidano persone che stanno finendo di scontare la pena e hanno “paura” della libertà, di uscire in un mondo dove sono stati dimenticati. Vuol dire che il carcere non li ha preparati a ri-vivere. Un fallimento cosi è difficile da accettare. «In carcere non si parla, ed è questo il problema numero uno – ci dice ancora Favero – per questo bisognerebbe liberalizzare le telefonate e aumentare al massimo la possibilità di contatti con l’esterno. Ma lo sa quanti detenuti sono stati trattenuti dal compiere gesti estremi proprio grazie a una telefonata con i familiari?». Ci sono persone che invece non sentono la madre o il fratello per mesi e mesi. Soli. Anche questi aumenta il disagio mentale, che cresce nella società “normale” figuriamoci in carcere. E poi però il “depresso” non ce la fa più.

Una settimana fa Jordan Jeffrey Baby, all’anagrafe Jordan Tinti, trapper senza fissa dimora di 27 anni è stato trovato cadavere con una corda intorno al collo nel carcere di Torre del Gallo a Pavia, ci aveva già provato, aveva anche subito violenza ma i giudici avevano negato i domiciliari. Ha preferito una corda al collo. A Secondigliano si è ucciso un giovane straniero, Robert L.: dall’inizio dell’anno i suicidi sono già 23, l’anno scorso sono stati 71. Gli stranieri che si tolgono la vita sono parecchi. Scarseggiano i mediatori culturali, gli interpreti. Gli psicologi in grado di capire e di parlare con un ragazzo marocchino che ha rubato un cellulare e poi dato in escandescenze una volta in cella. O peggio in un Cpr come quello di Ponte Galeria, a Roma. Su un muro Ousmane Sylla, 23 anni, originario della Guinea, ha lasciato un messaggio con un mozzicone di sigaretta: «Se un giorno dovessi morire, vorrei il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace». Poi si è ucciso impiccandosi. Non sappiamo se il suo corpo è tornato nella sua Africa, lo speriamo, il prezzo che il ragazzo ha pagato è altissimo.

E poi ci sono le storie terribili, spesso sconosciute. I maltrattamenti, le violenze. Terribili in sé e per le conseguenze che comportano. Questa è la storia di Fahki Marouane, 30 anni, marocchino, che a luglio dell’anno scorso si diede fuoco nella propria cella nel carcere di Pescara ed essersi procurato ustioni su quasi tutto il corpo. Marouane era tra i reclusi vittime dei pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile 2020, e si era costituito parte civile nel maxi-processo in corso all’aula bunker dello stesso carcere a carico di 105 imputati tra agenti penitenziari, funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e medici dell’Asl. Marouane avrebbe dovuto testimoniare al dibattimento, anche perché la sua vicenda era tra quelle ritenute più gravi dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere; dai video delle violenze, dalle indagini e dalle prime fasi del processo (partito a novembre 2022), è emerso infatti come Marouane fosse stato tra i detenuti maggiormente “attenzionati” dagli agenti penitenziari responsabili dei pestaggi. In particolare dai video mostrati nelle scorse udienze, si vede che Marouane, durante i pestaggi, fu costretto a muoversi sulle ginocchia a piccoli passettini per raggiungere il suo posto; rimasto solo dopo che gli altri detenuti erano stati portati via, fu colpito con il manganello in testa, quindi fatto alzare e inginocchiare nuovamente ad altezza di un agente, e alla fine riportato in cella tra i poliziotti che continuavano a pestarlo. Dopo l’esperienza a Santa Maria Capua Vetere, Marouane fu poi trasferito al carcere di Pescara, dove pareva essersi ripreso; lì aveva infatti intrapreso un percorso rieducativo concreto, diplomandosi e ottenendo la semilibertà, ma quest’anno, con l’inizio dei processi per i pestaggi del 6 aprile 2020, l’uomo ha probabilmente rivissuto il terrore ricadendo in quello stato depressivo da cui forse non era mai guarito del tutto. A Pescara Marouane sembra che sia andato in tilt per un richiamo, fino a minacciare di darsi fuoco, cosa che poi effettivamente ha fatto.

E vogliamo parlare del problema nel problema delle donne detenute in istituti penitenziari pensati in tutto e per tutto, da sempre, per gli uomini? Ancora l’estate scorsa, il 12 agosto 2023, la garante comunale dei detenuti a Torino Monica Gallo, dopo i suicidi di due detenute, aveva denunciato che «per le detenute donne meno servizi che per gli uomini. Non c’è un vero presidio medico, tutto ciò che riguarda l’assistenza è residuale». Ecco la sezione femminile del carcere di Torino: centodieci detenute su ottanta posti. Quattro dell’articolazione tutela salute mentale, ovvero le donne più fragili psicologicamente e con problemi comportamentali. In questo contesto Susan John, 43 anni, di origine nigeriana, si è lasciata morire di fame e di sete. Azzurra Campari, 28 anni, trasferita da Genova, dal penitenziario di Ponte Decimo, si è impiccata. Bisognerebbe utilizzare di più le pene alternative. Bisognerebbe ascoltarle di più, queste persone. Bisognerebbe rieducarle. Non condannarle all’inferno, come pare avvenga nelle carceri di questo Paese.