Votare la separazione delle funzioni tra pubblici ministeri e giudici, insieme agli altri referendum sulla giustizia il 12 giugno, anche nel nome di Giovanni Falcone. Il magistrato italiano più famoso al mondo avrebbe votato SI al quesito che più di altri darebbe una svolta alla giustizia. E il modo migliore per ricordare il magistrato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992, può essere solo il rispettare il suo pensiero, la sua intelligenza, le sue intuizioni mai banali. Sulla mafia, sui “pentiti”, così come sulle carriere delle toghe. Cominciamo da qui.

Dal fatto per esempio che c’è magistrato e magistrato. C’è quello che oggi è il Presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, il quale, sprezzante del senso del pudore, ma anche delle istituzioni, ha dichiarato: “Non andrò a votare”. E c’era una volta colui che ieri tutti, da Roma a Palermo, hanno ricordato -compresi gli ipocriti che quando era in vita lo avevano combattuto- come un “lottatore”, quello che aveva portato a giudizio ed era riuscito a far condannare, per la prima volta, il vertice di Cosa Nostra. Ma pochi hanno ricordato il magistrato lungimirante e riformatore, che non aveva fiducia cieca nei “pentiti” (sono solo degli apriscatole, soleva dire), perché li sapeva usare senza farsi usare. E non aveva paura della separazione delle carriere. Anzi l’auspicava.

Ecco perché Giovanni Falcone sarebbe andato alle urne il 12 giugno e avrebbe votato SI. Basta ascoltarlo, nel suo discorso di trent’anni fa: «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e delle stesse carriere dei magistrati del Pm non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il Pm, arbitro delle controversia il Giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del Pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti, rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura».

Trent’anni fa, un magistrato illuminato, aveva demolito i principali argomenti usati, dai sindacalisti delle toghe così come dagli esponenti del Pd e da tutti i partiti e Comitati per il NO, per giustificare il proprio anti-riformismo. Il timore che il pm possa cadere nella dipendenza dal Governo, come se l’autonomia significasse irresponsabilità, oltre al mito della “cultura della giurisdizione”, che in realtà non ha mai fatto parte dell’ “habitus mentale” di alcun pm. Né ai tempi di Falcone né oggi. Se hanno ancora un senso le regole del giusto processo, previste dall’articolo 111 della Costituzione, voluto in gran parte dalla sinistra e prontamente relegato alla smemoratezza. Dove si trova in buona compagnia, insieme a un altro principio costituzionale che dovrebbe essere la base di ogni civiltà giuridica, dello Stato di diritto, l’articolo 27 sulla presunzione di non colpevolezza.

Qui parlano addirittura le cifre, quelle diffuse dal Ministero di giustizia: mille ingiuste detenzioni ogni anno, che costano allo Stato 900 milioni di risarcimento, mentre il 90% dei procedimenti per la responsabilità disciplinare dei magistrati viene archiviato. “La carta canta”, avrebbe detto ai suoi tempi Tonino Di Pietro. Pare di no, invece. In un passaggio su Rai 3 (finalmente il servizio pubblico si è deciso a parlarne, sia pure un po’ sottovoce) dedicato ai referendum, ieri mattina l’ex procuratore Armando Spataro ha negato l’evidenza. Non è vero, ha detto, che molte delle persone arrestate in custodia cautelare poi vengono assolte. Lo ha buttato lì senza motivarlo né fornire dati alternativi. Che non esistono.

Altri magistrati, per esempio il segretario generale dell’Anm in un’altra trasmissione tv, hanno sostenuto che limitare la possibilità di manette al pericolo di fuga o inquinamento delle prove, cancellando l’ipotesi di reiterazione del reato (di cui rimane comunque la possibilità per i delitti più gravi), in pratica significherebbe non poter più arrestare. Viene sempre alla memoria la reazione dei pm milanesi di Mani Pulite dopo il decreto Biondi. Anche loro avevano semplicemente avvelenato i pozzi, dicendo di avere le mani legate qualora non avessero più potuto abbondare con l’uso di manette, ma poi, quando il decreto fu sciaguratamente ritirato, ben poche delle persone scarcerate tornarono in prigione. Bisognerebbe che tutte le forze in campo giocassero in modo un po’ più corretto, soprattutto se sono magistrati. Anche perché, che cosa dovrebbe pensare il cittadino davanti a una toga chiamata a giudicarlo, se sospetta che lo stesso abbia barato al gioco?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.