Seguirò l’azzardoso esempio di Iuri Maria Prado e parlando dell’on. Soumahoro e anziché dire “nero” dirò anch’io negro, perché il razzismo, come la mafiosità, conta su due sistemi comunicativi. Il “black” importato dall’America come “nero” che in Italia sostituisce “negro”, ma in America l’appellativo schiavistico “nigger” o “negro” (pronunciato nigro) certifica un fatto storico: l’abolizione della schiavitù e quella sempre parziale dell’apartheid, e cioè di far credere che il razzismo sia stato vinto, assecondando l’ipocrisia politica. E dunque smettiamo di dire nero e assumiamo il negro, come del resto hanno imposto i black americans, che hanno riservato a sé stessi il diritto esclusivo di usare l’aggettivo “negro” per parlare da negro a negro, senza l’intromissione del bianco.

Un nero americano si rivolge a un nero americano dicendogli “Hi, my nigger,” e my nigger è il nome di una fratellanza nella razza. Chi ricorda l’autobiografia di Malcolm X ricorda le temerarie parole con cui il leader mise a nudo l’infezione razzista all’interno delle comunità nere dove immancabilmente i neri più chiari perseguitano quelli più scuri. Sì, ciò che sta accadendo in questi giorni all’onorevole Soumahoro è razzismo. Una prova? Io stesso. Chiamato in televisione a commentare la vicenda di quest’uomo sul cui conto indagano i carabinieri anche se in mancanza di una sola ipotesi di reato – intanto mettiamo tutto sotto inchiesta, setacciamo ogni frammento della sua vita, famiglia, affari, pensieri, azioni e poi vediamo – io stesso ho emesso parole che biasimavano o almeno sconsigliavano il deputato Soumahoro dal piagnucolare, querelare, farsi venire attacchi di nervi esagerati perché con paternalistica superiorità. intendevo dirgli: eddài, non fare il negro piagnone, con moglie e suocera che non pagano i dipendenti e non danno abbastanza cibo ai ragazzi. Fai invece il negro buono, che rallegra gli antirazzisti da salotto di casa nostra, della nostra ipocrita sinistra, sempre pronta a sporcarsi poco le mani e ancor meno la coscienza, avendo sempre la mascherina sul naso e l’amuchina giusto in caso il cosiddetto nero non fosse proprio un campione d’igiene, di questi tempi non si sa mai, mica per razzismo, per carità.

E invece, fratelli bianchi, guardiamoci e guardatevi in faccia – e mi ci metto anch’io – siamo affetti da doppio razzismo, che è la versione del razzismo di sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo, perché abbiamo paura sia dell’essere umano verniciato di melanina che vuoi o non vuoi è sempre un soggetto particolare anche se in nome della nostra ipocrisia lo esaltiamo mentre invece quello, o quella, chiede di essere trattato normalmente, sia dal nostro razzismo di dentro, quello che madre natura mette dentro a tutti come diffidenza del diverso, sia per motivi animali che non risparmiano nemmeno noi, figli delle belve della savana e non degli angeli. Nel Lessico Famigliare Natalia Ginzburg, ebrea piemontese, ricordava l’innocenza ingannevole di suo padre che quando voleva dire qualcosa di sbagliato, ridicolo e incettabile, diceva è una “negrigura”, parola peraltro italianissima che sta anche sul dizionario Treccani. Far finta di essere esenti dal peccato originale del razzismo (quello subdolo, sudicio, travestito, come quello degli antisemiti che prima o poi ti dicono che il loro miglior amico è ebreo) è far finta di essere razzialmente superiori. Dunque, è una confessione di razzismo. E allora, tanto per essere chiari e sfrenati, ricordiamo un coraggioso che in genere non ci viene in mente ed è Matteo Salvini, il quale di fronte ai guai del “bestia”, il suo fedele collaboratore Morisi accusato di traffico o di droga, si buttò a corpo morto per difendere un suo uomo portato sotto la gogna mediatica e linciato. Salvini ebbe fegato, anche se poi si esibiva nel numero dei citofoni chiamati dalla strada: “Pronto? È lei lo spacciatore? Mi dicono che lei spaccia”.

Lasciatemi spendere qualche parola da vecchio reazionario politicamente scorretto: ci hanno rotto per decenni le palle sulla retorica del diverso. Io sono stato diverso a causa dei miei capelli rossi quando mi terrorizzavano chiamandomi roscio malpelo. Figlio di un padre, rosso anche lui che, come ogni padre Dc, mi avvertiva e raccomandava di stare con la testa bassa, non reagire, portare un cappello che nascondesse l’anomalia. Oggi può far ridere ma negli anni Quaranta e Cinquanta i razzisti non avevano nessuno di meglio da linciare, che i rossi e coloro che avessero qualsiasi difetto fisico. È il principio odioso del capro espiatorio per cui sono sempre i diversi, non importa quanto, a finire giù dalla Rupe Tarpea o sulle fascine accese, legati a un palo, accusati di essere streghe, stregoni, figli rossi (di nuovo) del diavolo, ebrei marrani, eretici e devianti sessuali. Chiunque non sia del proprio gregge, del proprio sugo e delle proprie spezie, chiunque abbia un odore di ascelle che non è come il nostro. Bisogna viverci davvero in una società multirazziale, multiculturale, con più di venti varianti di possibili identità di genere, colore, accento, etnia…

E allora diciamolo chiaramente, che tutta la storia del deputato della Repubblica Soumahoro è la schiuma del razzismo incorporato e paternalistico, della rabbia per il fatto che questo sindacalista africano che difende quelli della sua stessa storia ci avrebbe delusi perché in definitiva anziché comportarsi come un candido cavaliere senza macchia e senza paura, si comporta come un uomo che ha paura, si indigna, avverte il peso della propria pelle nera, si ritrova gli investigatori in casa e finisce sulle prime pagine e sui telegiornali per una e una sola ragione: perché è negro. Diceva la vecchia canzone napoletana sui figli nati dalle relazioni sessuali fra ‘e signurine napulitane e i soldati americani: “Chillo, o fatto, è niro, niro. Niro, niro comm’a che!”. Tutti quei figli neri napoletani io li ricordo benissimo perché vivendo a Napoli erano affidati alle buone suore che li picchiavano senza pietà e poi sparivano. Chissà che fine hanno fatto. Noi non siamo mica razzisti. Ricordate la storiella del cumenda milanese che dice: “Razzista mi? L’è lù che l’è negher”. Con la differenza che oggi non abbiamo di fronte il cumenda milanese, ma l’intera sinistra italiana che bela, che biascica, che mormora, che distingue, che vorrebbe prendere almeno un pesce e non sa che pesce prendere.

E non può, perché non sa guardarsi allo specchio e dire: fosse che in fondo i razzisti siamo noi con tutta questa carità pelosa, questa carità ignobile di chi vorrebbe dare ai negretti tutte le mutande senza elastici, le calze spaiate, le camicie lise, e per loro vuoterebbero le cantine, si libererebbero della bici senza una ruota e di tutte le scatole di cibo scadute solo da un mese? Li ho visti in Calabria i negri che neanche in Alabama: ammassati nelle case sfondate i cui padroni viaggiavano in Ferrari e che nutrivano i negri con farina per maiali arricchita di vitamine e davano loro cessi di cartongesso. Erano tutte inchieste se non ricordo male del procuratore Gratteri. E ora c’è questo rompiscatole che si trova pure nei guai per una madre e una suocera e che piagnucola, minaccia querele, fa una debolissima voce grossa e nessuno della sinistra finta ha il fegato di dire: Soumahoro è un uomo ed è nostro, mentre noi invece siamo una massa di opportunisti razzisti. Non uno. Sono tutte anime candide, cioè bianche.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.