Sarebbe consolante poter attribuire allo sfogo di un teppismo ordinario il vilipendio del cantiere del museo della Shoah in via di realizzazione a Roma, la città del rastrellamento italo-tedesco del Ghetto ebraico nel 1943. Ma una guarnizione letteraria, chiamiamola così, impedisce quella liquidazione consolatoria e l’imputazione del gesto all’esercizio di un insulto meramente delinquenziale. La disseminazione degli escrementi su quei lavori in corso, infatti, era intestata alla presunta causa palestinese e denunciava gli “assassini infami responsabili del “genocidio” di Gaza.

Era merda spalmata sugli ebrei, sulle vittime e sui superstiti della Shoah, quella che insozzava il memoriale in costruzione con il contorno di quella sloganistica “pro-Pal”. E avevano mandanti molto precisamente individuabili i portatori di quelle deiezioni e i redattori di quei proclami di accusa lapidariamente distribuiti a denuncia della nuova colpa ebraica. I mandanti erano i responsabili di un anno e mezzo di retorica, appunto, sul “genocidio”, sulla “pulizia etnica”, sulla “punizione collettiva” senza sosta reiterata – si badi – non dai megafoni di qualche corteo adolescenziale, ma dal gigantesco coro politico, editoriale, accademico e dell’associazionismo presunto umanitario che dal pomeriggio del 7 ottobre del 2023 ha assordato un’opinione pubblica ormai globalmente educata al verbo falso di quella propaganda.

Vero il genocidio – e così mostruosa la responsabilità di chi lo compie – diventa una minuzia il caso di un energumeno che prende di mira due ebrei, un vecchio e un bambino, davanti a una scuola ebraica di Milano. Vera la pulizia etnica – e così intollerabile che sia impunemente perpetrata – diventa poca cosa la fioritura degli insulti sulle case degli ebrei. Vera la punizione collettiva – e così scandaloso che abbia corso nell’indifferenza comune – diventano dettagli magari non piacevoli, ma dopotutto trascurabili, le bastonate sulla schiena di un rabbino.

Ma c’è poi un responsabile collettivo anche più colpevole di quelli che personalmente e direttamente si sono abbandonati alla divulgazione di quella propaganda, le montagne di menzogne sul genocidio dei palestinesi e sulle statistiche false rivolte a trasfigurare la guerra di Gaza, scatenata da Hamas, nel deliberato sterminio sionista di donne e bambini. È la vasta schiera – mezza soltanto pigra, mezza riluttante a intendere – che, se non ha partecipato direttamente alla disseminazione di quella retorica, tuttavia l’ha lasciata correre e non l’ha denunciata per quel che era, facendo finta che fosse il frutto di un innocuo e passeggero movimento di budella. Qualcosa, appunto, capace tutt’al più di risolversi in qualche episodio di fungibile teppismo. Non li sfiorava il sospetto che una stella gialla appuntata sul bavero di un ebreo era dopotutto un dettaglio sartoriale, imparagonabile per gravità alla cospirazione giudaica che succhiava il sangue ai popoli sottoposti al dominio di quella schiatta usuraia.

La concomitanza della sinagoga data alle fiamme con la bufala dell’ospedale raso al suolo a Gaza non li impensieriva. Non li preoccupava la fake news sul numero dei civili uccisi con il pedissequo avvio della caccia all’ebreo nelle università. Non li turbava, accreditata nei cori contro gli “ebrei assassini”, la quotidiana pubblicistica sulle inesistenti carestie di Gaza.

Se in un luogo memoriale come quello in costruzione a Roma si ingolfano quei reflui non è per ingovernabile ed episodica inciviltà: è perché il pregiudizio antisemita ha preso il governo del sentimento pubblico, e l’ultima cosa che serve è argomentare che si tratta di gesti inaccettabili in una società che li ripudia. Sono inaccettabili, sì, ma sono ripudiati genuinamente solo da parte di una società capace di riconoscere di averli generati. Era l’escremento di quella retorica falsa, di quel giornalismo colpevole, di quella militanza accademica pervertita, la roba cosparsa sulla costruzione di quel museo della Shoah.