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Lo show di Hamas e il supporter Pro-Pal della Croce Rossa che ora si preoccupa degli ostaggi ma per 15 mesi non ha chiesto di visitarli
Stretta di mano sul set tra il supporter della Palestina e il miliziano che consegnava tre ebrei malridotti. Le organizzazioni umanitarie sono fondamentali, sì, ma per garantire le allegre coreografie dei terroristi

Sorrideva il supporter Pro-Pal che, nei paramenti della Croce Rossa, offriva una franca stretta di mano al terrorista di Hamas che gli consegnava tre ebrei ridotti ad altrettanti scheletri. Considerato che la cerimonia andava in scena in un set preso di mira da decine di telecamere, è escluso che quell’operatore “umanitario” – un siriano solitamente in kefiah – immaginasse di non essere ripreso mentre si intratteneva in quello scambio di rispettose affettuosità con il sequestratore.
Sapeva di poterlo fare, sapeva di potersi abbandonare a quei gesti poco sorvegliati e a quella mimica indecente per un motivo molto semplice, e cioè perché un simile comportamento non avrebbe fatto scandalo, anzi. A tenerlo, infatti, era l’addetto a un’organizzazione – la Croce Rossa, appunto – che in 15 mesi non ha mai chiesto notizie degli ostaggi, non ha mai chiesto di poterli visitare, non ha mai chiesto rapporti che ne descrivessero le condizioni di detenzione e di salute.
Aveva dunque il suono di una bestemmia in chiesa la dichiarazione con cui la Croce Rossa, ieri, comunicava i propri timori per la condizione degli ostaggi che dovrebbero essere rilasciati in queste ore. Per quanto qualche buontempone (evitiamo di fare i nomi per carità di patria) si sia esercitato a spiegare che il maltrattamento degli ostaggi era un’invenzione della propaganda sionista, il fatto che quella gente fosse sottoposta a degradazioni e torture non era propriamente inaspettato. Sempre che non sia di per sé inumano tenere qualcuno sotto sequestro per 500 giorni.
Eppure il fatto che la prigionia degli ostaggi perdurasse per mesi, nella confortevole penombra dei tunnel, poteva passare inosservato solo a chi riteneva che fosse utile per la prevenzione del cancro alla pelle. Così come il fatto che vivessero nell’austerità salubre di una dieta misurata, tanto benefica per ripulire l’organismo intossicato dalla crapula. Per non parlare della loro condizione disarmata, tanto proficua per la rieducazione di individui così profondamente intaccati dal virus guerrafondaio (quelle ragazze erano militari, signori miei!). Una cosa è certa: quella prolungata tortura, forse appunto perché in realtà era un soggiorno dopotutto mica male, non bastava a mobilitare gli eserciti dei carrozzoni umanitari impegnati nella distribuzione di dati falsi sulle presunte e in realtà puntualmente inesistenti carestie di Gaza.
Appartiene a questo bel quadro di moralità sbilenca il comportamento del grosso – diremmo del totale – di queste agenzie bardate di segni pacifisti ed eloquenti nell’affettazione di equanimità medicali. Hanno a cuore i malati, ma a patto che stiano a languire negli ospedali che, per capriccio sicario, Israele si diverte a colpire. Hanno a cuore i bambini, ma a patto che non siano quelli che Hamas usa come soldati né quelli che nelle scuole delle Nazioni Unite apprendono la bellezza di farsi martiri. Hanno a cuore i civili, ma a patto che non siano quelli che Hamas abbatte a fucilate, per strada, a inaugurazione del primo giorno di tregua. Hanno a cuore i diritti civili, ma a patto che non si tratti di quelli degli omosessuali decapitati a Gaza né di quelli degli oppositori politici fatti volare giù dai tetti di quella città ridotta a una “prigione a cielo aperto” dagli israeliani che l’hanno lasciata da vent’anni, non dalle belve sanguinarie che vi hanno imposto il loro giogo.
Rivendicano di essere essenziali, insostituibili, queste organizzazioni umanitarie. È vero: se disgraziatamente venissero a mancare, le coreografie di Hamas sarebbero meno allegre, meno colorate, meno sorridenti.
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