Il libro scritto a tre mani (di magistrati, e di un avvocato e docente universitario: Alfredo Mantovano, Domenico Airoma e Mauro Ronco, rispettivamente), dedicato a Rosario Livatino, va ascritto a quelle letture che, sembrando del tutto inattuali, dischiudono poi pensieri di grande attualità (Un giudice come Dio comanda, Il timone, pp.111, euro 14). Rosario Livatino, magistrato in Agrigento, fu vittima – il 21 settembre 1990 – di un efferato attentato mafioso, ad opera della “stidda” agrigentina che voleva affermarsi contro Cosa Nostra.

Il contesto di quell’omicidio e le ragioni dei mandanti emergono con chiarezza dai tre tronconi giudiziari che seguiranno al fatto: gli autori ricostruiscono l’uno e le altre con sintesi efficace. Quel che colpisce il lettore è però altro. Per un verso, il profilo umano e professionale di Livatino, la caratura del suo impegno con le sue implicazioni etiche spiazzanti: la scelta di non avere scorta, ma anche quella di non sposarsi (fu ucciso quando ancora doveva compiere 38 anni). Le pagine dedicate a quel profilo consentono agli autori di impartire, con garbata determinazione, due lezioni rilevanti. La prima riguarda tutti i cittadini che vorranno leggerle, grazie all’illustrazione dei fondamentali della legislazione antimafia e del suo sviluppo nel tempo, con riferimenti sempre pertinenti al lavoro di Falcone e Borsellino.

La seconda lezione riguarda i giuristi, i magistrati soprattutto: vi troviamo il decalogo della buona motivazione, dell’approccio che si richiede alla ricerca della verità in fase di indagine e di giudizio, della necessità di ascoltare tutto con mente aperta e con il dovuto impiego di tempo. Vi troveremo passaggi di inequivocabile autocritica (alleluia! aggiungo, visto il tempo pasquale): “La degenerazione riguarda altro: riguarda ordinanze di custodia in carcere (…) per le quali i Gip riproducono per intero il contenuto della richiesta del pubblico ministero, il quale a sua volta non infrequentemente fa il ‘copia e incolla’ delle informative della polizia giudiziaria; e così chi legge si convince che andare agli arresti dipende nella sostanza dalle conclusioni della polizia giudiziaria, e non invece – come prescrivono la Costituzione e il codice di rito – dalla verifica operata da un giudice terzo e imparziale”. Ma per altro verso il libro apre uno squarcio antropologico antichissimo e quindi nuovo sulla testimonianza di fede di Livatino, proclamato beato dalla Chiesa cattolica il 9 maggio 2021.

Le sue doti di magistrato che annota sulla propria agenda un S.T.D. che dopo la sua morte verrà svelato come acronimo del suo affidamento a Dio (sub tutela Dei) vengono ricondotte a una visione cristiana della vita dell’operatore di giustizia nei termini di esperienza di umiltà, riserbo, massimo rispetto della vita e della dignità umane. Come gli autori evidenziano in questo piccolo e del tutto antiretorico libro (che andrebbe prescritto come una terapia non solo ai magistrati, ma a tutti quanti, nel Governo e nel Parlamento, all’università e nei giornali, si occupano di giustizia) “la sua vita dimostra che si può esercitare un mestiere così dilaniante, quale quello del giudicare il proprio simile, da cristiani”.