Editoriali
Storia d’Italia, 1951: quando dalla radio uscì fuori il mondo

Nella scuola Emanuele Gianturco, al lato del Pantheon, erano venuti quella mattina gli ispettori speciali del ministero. Perché era un evento speciale di cui non capivamo niente ma ci faceva ridere perché l’evento era la Ceca, sigla che stava per Comunità europea del carbone e dell’acciaio, e potete immaginare degli scolari piegati sul foglio a scrivere pensieri dementi sulla Ceca. Ma ci inflissero un preambolotto teorico con cui trasmetterci lo spirito di Ventotene di cui non sapevamo nulla, ma capimmo che si trattava di grande evento perché per la prima volta i Paesi europei invece di prendersi a cannonate si mettevano insieme per produrre carbone e acciaio. «Questo – ci disse l’austera signora del Ministero – è solo il primo passo di una cosa molto più grande che un giorno si farà e si chiamerà Europa». Ma non si chiama già Europa? chiese uno. «Sarà l’Europa unita, senza più guerre e un giorno si chiamerà gli Stati Uniti d’Europa». Bella idea e scrivemmo colonne e colonne di fogli protocollo riempiti di ridondanti ed enfatiche banalità. Però era successo qualcosa. Poi, c’era sempre questa guerra di Corea che adesso sembrava sotto casa. Era peggio della Prima guerra mondiale, dicevano, perché milioni di soldati si sparavano nelle trincee scavate nella neve ed era tutto sangue, urla dei feriti e morte. E cinesi, si diceva, che arrivavano a ondate. Non come uomini singoli, ma come masse liquide prive di individui distinguibili. Tutti uguali, i cinesi. E più le forze dell’Onu sparavano, più quelli tornavano. Era una guerra di cui arrivavano notizie militari e minacce pesanti alla nostra vita privata. La guerra che avevamo vissuto era finita solo da sei anni, e adesso parlavano di una nuova generazione di bombe atomiche che potevano far sparire un continente.
Il tasso di rancore nella guerra fredda saliva in casa e nelle strade. Avevo undici anni ma ricordo perfettamente quanto quella guerra fosse globale.
E poi la radio. La radio era tutto. Si aspettava quel segnale dell’uccellino della radio che preparava – un fischietto meccanico come un telegrafo che scandiva il tempo – all’ora esatta cui seguiva immediatamente la voce di uno speaker che si annunciava dicendo: «Giornale Radio».
Non era un giornalista, uno di passaggio. Era come la voce della Bbc in Inghilterra. Era una voce solo maschile, grave, profonda, dall’ortoepia – cioè la pronuncia – corretta al punto tale che nessuna parlata regionale, neanche toscana, poteva eguagliarla per perfezione.
Il Giornale Radio era pieno di ministri e di dichiarazioni, compilato sulle agenzie di stampa governative con pochissime interviste a personalità ufficiali, campioni sportivi o attori.
Il trionfo della radio fu a novembre di quell’anno. Il 14 novembre il Po andò fuori dagli argini e sommerse il Polesine. Nessuno aveva memoria di una sciagura talmente grande, per di più vissuta in diretta, ventiquattro ore al giorno, comprensibile a tutti: fu la prima catastrofe naturale globalizzata d’Italia. Era l’Italia in cui la gente viveva attaccata alla terra come gli insetti e nella provincia di Rovigo fu un disastro perché quasi duecentomila persone furono cacciate di casa dalle acque e ci furono più di cento morti e parlavano tutti, il papa e i ministri i leader politici e si facevano sottoscrizioni che venivano annunciate alla radio vaglia per vaglia, lira per lira.
Oggi siamo abituati alla televisione e a quel che succede con i terremoti, altre sottoscrizioni e racconti penosi. Ma la radio era una scatola di legno color noce o radica con un vetro su cui si leggevano i nomi di tutti i paesi e le città del mondo fra cui cercarti la stazione fra gli scrosci statici e sibili.
Quando arrivò in casa una radio monumentale potentissima in cui bastava premere un tasto per avere la Rai o il grammofono incorporato, era qualcosa come Wi-Fi moltiplicato Netflix e potevi girovagare fra lingue mai sentite. Inoltre, la radio forniva sceneggiati fantastici pieni di cigolii sinistri, urla dal pozzo della vertigine, tutto il mondo di Edgar Allan Poe in particolare e le voci di comici surreali come il misterioso Alberto Sordi che ancora non aveva un volto. I gatti erano più frequenti dei cani negli appartamenti infestati dai topi e il nostro ne ha avuti almeno tre, tutti amatissimi.
Questa faccenda della guerra alle porte era molto angosciosa. Gli Stati Uniti stavano preparando una bomba più potente di quella di Hiroshima che sarebbe stata all’idrogeno e anche i sovietici erano al lavoro fervente con i loro ordigni. In Italia le carriere degli iscritti al Pci e al Psi erano molto ostacolate, per non dire boicottate. Cresceva lo spionaggio e questo era un fenomeno comune all’Est e all’Ovest.
La gente di destra o comunque anticomunista era sicura che da un momento all’altro arrivassero i cosacchi di Stalin per abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro e permaneva nell’aria una vaga ipotesi insurrezionale. Togliatti e i dirigenti del Partito comunista scoraggiavano le fantasie di presa del potere con le famose armi nascoste e ben oliate (a intervalli regolari polizia o carabinieri trovavano qualche deposito di mitra Sten e qualche bomba) e una quantità di bambini saltava in aria sulle bombe inesplose della guerra. Era un bollettino quotidiano terribile di mutilazioni e morti.
C’era grande fermento nell’agricoltura e in Parlamento era finalmente passata una riforma agraria molto più moderata di quanto avesse voluto la Cgil, ma comunque era davvero cominciata la fine del feudalesimo. Nel senso proprio: era stato deciso per legge che i retaggi feudali andassero rimossi, il che significava che da una parte cresceva una classe di ex servi della gleba che dicevano sissignore e mandavano i guadagni al padrone, dall’altra era l’inizio della fine di questa classe parassitaria e felice dei grandi proprietari agrari che delle loro terre se ne erano sempre fregati con un’entrata comunque garantita senza far niente. Sempre meno, ma erano comunque troppi.
Stava cambiando proprio la composizione della materia italiana: la metà che era ancora terrosa e largamente analfabeta insieme alla borghesia più giovane che non vedeva ancora le prospettive che si sarebbero aperte con la grande ricostruzione, aveva già cominciato ad emigrare non solo negli Stati Uniti, ma nell’Argentina di Perón e dei suoi descamisados, particolarmente amati anche dai nostalgici fascisti e dai fuggiaschi del Terzo Reich tedesco. Anche il Brasile si riempiva di italiani, come l’Australia e- in Europa – la Francia dei rital (come venivano spregiatamente chiamati gli emigrati dal Paese che era stato loro nemico er poi occupante durante la guerra) e poi in Belgio, nel buio delle miniere e delle stragi nelle gallerie.
Non era ancora l’Italia della Seicento e dell’Autostrada del Sole e tutte le aziende del nord cercavano di convertirsi nel tessile e proprio nel Polesine e nel Veneto, le donne e i bambini lavoravano giorno e notte intorno alla macchine da cucire per confezionare calze che poi i loro uomini con la valigia di cartone andranno a vendere in treno oltre le frontiere.
Era arrivata la penna biro, o a sfera. Quella classica che gira ancora oggi di plastica trasparente con dentro la cannula con la sfera rotante. Fu una rivoluzione millenaria: non più inchiostro, non più macchie e per qualche tempo la scuola resistette all’ “americanata” della penna che poi si butta e c’era questa resistenza visibile verso il nuovo e il moderno.
Le donne seguivano la moda sulle riviste della moda che puntavano tutte sulla moda elegante e sul bon ton, mentre dall’America arrivava una ventata di femminismo pratico: la donna come è, come vorrebbe essere, seducente e pratica. Il New Look veniva dalla Francia di Christian Dior e gli stilisti italiani, benché in erba, erano già determinati a competere e si gettavano in una mischia che avrebbe prodotto dall’anno successivo Palazzo Pitti. La moda era un’arte totalmente rinnovata che già aveva la forza di fare da volano per un mondo da inventare, o meglio di un mercato che già esisteva ma che non sapeva bene che cosa desiderare.
Dai miei appunti di ragazzino romano vedo i pianerottoli delle case perbene carichi di materiali imprevisti: motori per auto, gomme per autotreni, scatole di medicinali. Erano arrivati gli antibiotici, già si moriva di meno con la penicillina che certamente a me aveva salvato la pelle almeno due volte. Ma ricordo una borghesia appena uscita dalle botte che cercava di fare affari, comprava e vendeva, modificava, viaggiava e – con grandissimo scandalo di mia madre che pure era una giovane bella donna – faceva sesso.
La Chiesa era occhiutissima, le organizzazioni cattoliche erano fortemente sessuofobiche e quando maschi e femmine imboccavano la via dello sviluppo e dell’adolescenza, una rete di precauzioni era già pronta ad accoglierli separandoli per genere e spingendoli nel migliore dei casi a fare sport. Sport come antidoto del peccato. I giovani non facevano molto sesso. C’erano i casini ma non credo che fossero usati da una grande popolazione. C’erano amanti e mantenute (vari gradi della degradazione femminile) ma le ragazze avevano una paura fottuta. Portavano imbragature di reggicalze, calze, gancetti da spezzarti le unghie e poi erano terrorizzate da tutto: gravidanza, deflorazione, genitori, persino i fratelli e la sessualità era una faccenda del tutto sotterranea e leggendaria, se non catacombale. Il massimo che poteva accadere – con le dovute precauzioni – era il bacio o pomiciare (a Roma) o limonare ma si favoleggiava del petting (mani addosso per arpeggi improvvisati (i maschi avevano delle femmine una conoscenza pari a zero, non giravano foto anatomiche, la pubblicazione dei seni era vietata e si andava in galera, bisognerà arrivare ad un’esplosione non meditata di Cesare Zavattini vent’anni più tardi quando di colpo disse “cazzo” alla radio e l’evento fu festeggiato come se fosse comparsa la madonna.
Ma le parolacce erano per solo uso maschile e le femmine concedevano poca promiscuità e sempre sul filo dell’infarto. Le donne erano uscite dal tunnel della moglie fascista cittadina o massaia o mungitrice e un anno prima del disastro del Polesine dalle risaie erano già uscite le gambe di Silvana Mangano e grandi fantasie erotiche sulle mondine di Riso Amaro di De Santis. Erano uscite fuori le gambe e la donna che lavora e che, essendo sola e bella e immersa nella melma, sa trattare alla pari gli uomini esattamente come nella letteratura afroamericana facevano le donne nelle piantagioni: “Sciùr parùn dalle belle braghe bianche, dame le palanche che andemo a ca’” era una canzone sia del lavoro che dell’indipendenza femminile e tutto ciò arrivava a sferzate, non faceva parte del mondo di prima, non faceva parte del mondo delle ginnaste, delle Giovani italiane e degli stereotipi, come invece succedeva – e i giornali ne erano pieni – nel mondo sovietico, dove le lavoratrici e i lavoratori somigliavano nel realismo socialista ai quadri italiani (e fascisti) di Sironi, in cui il corpo dei maschi e delle femmine appariva interamente dedicato alla costruzione della società ideale.
Un’Italia che aveva voglia di divertirsi. Repressa, tante cerimonie religiose che non potete neanche immaginare, mesi mariani e novene, processioni e confessioni, per non dire del puritanesimo del Partito comunista in diretta concorrenza con quello democristiano.
Lì, i socialisti cominciarono un po’ a fare razza a parte: aria libertaria, anche un po’ sporcacciona, parlavano sfrontatamente di contraccettivi, di aborto e amore libero anche per smarcarsi dai comunisti che già allora si ispiravano più a santa Maria Goretti che a Sophia Loren che aveva diciassette anni e si dava da fare con particine gloriose che di lì a poco l’avrebbero portata al contratto con la Paramount.
© Riproduzione riservata