Quarant’anni fa, 2 agosto 1980, alla stazione di Bologna la strage più sanguinosa della storia italiana costò la vita a 85 persone. I colpevoli, secondo sentenze passate in giudicato, sono Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, all’epoca dei fatti minorenne e quindi processato a parte. Quest’anno è stato condannato, con sentenza di primo grado, anche Gilberto Cavallini. In precedenza erano stati condannati per depistaggio, ma non per un coinvolgimento diretto nella strage, Licio Gelli, Francesco Pazienza e i dirigenti del Sismi Musumeci e Belmonte.  L’Italia è un Paese che adora gli anniversari a cifra tonda. Era dunque assicurato in partenza che il quarantennale della strage avrebbe fatto più rumore del solito.

La procura generale di Bologna ha reso la profezia certa con una indagine, debitamente amplificata e quasi spacciata per verità comprovata da media compiacenti, che per la prima volta ritiene di aver scoperto i mandanti e l’esecutore materiale della strage. È il caso di ricordare, infatti, che i Nar erano stati considerati come “organizzatori” del massacro, non come i suoi ideatori e neppure come coloro che materialmente avevano depositato l’ordigno nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione della città italiana. Se mai si arriverà a un processo, si tratterà senza dubbio di un’udienza spettrale. Gli organizzatori e finanziatori della strage, Licio Gelli, il suo braccio destro Umberto Ortolani, l’ex direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato e l’allora direttore del periodico Il Borghese Mario Tedeschi sono tutti morti, e così molti dei testimoni che dovrebbero essere chiamati alla sbarra. È vivo, invece, il presunto esecutore materiale, Paolo Bellini, una figura collocata all’estremo opposto della limpidezza: ex fascista, ex malavitoso, ex collaboratore dei servizi segreti, reo confesso di uno degli omicidi più misteriosi degli anni ‘70, quello del giovane militante di Lotta continua Alceste Campanile. Nella confessione, grazie alla quale incidentalmente ha potuto beneficiare della legge sui collaboratori di giustizia, Bellini chiamava in causa numerosi complici, i quali però sono poi stati tutti assolti.

La nuova inchiesta ha in realtà molto poco di nuovo. Si basa su un dossier raccolto dall’Associazione parenti delle vittime della strage e poi presentato alla Procura di Bologna che aveva deciso di archiviare. Dopo le proteste dell’Associazione la Procura generale di Bologna ha deciso di avocare l’inchiesta e di procedere. A quel che se ne capisce, i “fatti nuovi che giustificano la roboante asserzione di aver “scoperto la verità” sono il frontespizio di un prospetto contabile, nel quale sono registrati versamenti dell’ex Venerabile, con su scritto “Bologna 525779 – x.s.”. Secondo la procura il frontespizio sarebbe stato tenuto nascosto per impedire i collegamenti tra i versamenti e la strage. In realtà il frontespizio, che in sé naturalmente non prova e neppure indica alcunché, era invece già stato citato dal pm Dall’Osso nel processo per il crack del banco Ambrosiano del 1988.

Ulteriore elemento sarebbe la destinazione di corposi finanziamenti di Gelli a un misterioso “Zafferano”. Per gli inquirenti si tratterebbe del potentissimo ex capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale D’Amato, che nella sua rubrica di cucina sull’ Espresso aveva in effetti lodato le virtù dello zafferano. Su questa base la Procura generale ritiene di poter azzardare l’ipotesi di un incontro tra Gelli e non meglio identificati leader neofascisti, nel quale il Venerabile avrebbe consegnato un milione di dollari in contanti come anticipo sul sanguinoso lavoretto commissionato. È il caso di segnalare che il pagamento cash, per gli investigatori, è provvidenziale. Rende infatti impossibile trovarne traccia. Come dire che in questo caso deve “bastare la parola”. Per quanto riguarda Bellini, che era già stato indagato per la strage nei primi anni ‘80 e prosciolto dopo aver fornito un alibi, il “fatto nuovo” eclatante è un filmino girato immediatamente prima della strage nel quale compare un passante che somiglia molto a Paolo Bellini.

La filiera ricostruita dalla Procura generale di Bologna sembra dunque essere questa: la P2, eterna e demoniaca presenza adoperata a man bassa per spiegare praticamente tutti i fattacci a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, commissiona la strage per motivi non meglio chiariti. Gelli in persona consegna l’anticipo a non meglio identificate figure centrali del neofascismo che, a loro volta, incaricano i ragazzini dei Nar di eseguire. Questi, solerti, organizzano la mattanza, di eseguire la quale si incarica poi materialmente Bellini. A sostegno dell’ipotesi viene dato sui media ampio risalto all’intercettazione, in realtà nota da decenni, dell’ordinovista veneto Carlo Maria Maggi, condannato per la strage di Brescia e deceduto, nella quale il fascistone si dice certo, chiacchierando con moglie e figlio, della colpevolezza di Valerio Fioravanti.

La ricostruzione fa acqua da tutte le parti. Il frontespizio con su scritto “Bologna” non era stato affatto tenuto segreto ma era al contrario noto e citato negli atti processuali. I prospetti economici vergati da Gelli, anche a prendere per buona l’interpretazione che ne danno gli inquirenti per quanto sia palesemente forzata, dimostra solo che il gran maestro della P2 aveva nel luglio 1980 prelevato dei soldi, senza chiarire nulla sulla loro destinazione. Non esistono né prove né indizi di incontri tra i presunti protagonisti della efferata trama, né tra Gelli e gli ordinovisti veneti, né tra questi e i Nar, che in realtà li odiavano al punto di condannarne a morte i dirigenti, né, infine, tra i Nar e Bellini.

Non è poi chiaro perché Fioravanti, con un milione di dollari in tasca e con le spalle coperte dalla spia più potente d’Italia, Federico Umberto D’Amato, si fosse rivolto, per procurarsi documenti falsi, a un balordo come Massimo Sparti, la cui denuncia è il solo elemento concreto su cui si basi la condanna dei Nar per la strage. È il caso di ricordare che si tratta di quello stesso Sparti la cui testimonianza era stata smentita sia dalla moglie che dal figlio che dalla Colf e che, scarcerato perché in fin di vita dopo aver denunciato i Nar, è poi sopravvissuto a un cancro terminale per oltre trent’anni. Il medesimo Sparti che, secondo la testimonianza del figlio Stefano, avrebbe confessato sul letto di morte di aver mentito su Bologna. Non è neppure chiaro perché, sempre con un milione di dollari in contanti a disposizione, i Nar si siano sentiti in obbligo, il 5 agosto 1980, di finanziarsi con una rapina, seguita poi da altre rapine. La stessa registrazione delle chiacchiere di Maggi è in realtà un’arma a doppio taglio. Il leader ordinovista sostiene infatti che la strage sia stata decisa per sviare l’attenzione dallo “scenario di guerra” di Ustica, dunque dopo il giugno 1980. Secondo la procura di Bologna, invece, la P2 avrebbe iniziato a pianificare l’incomprensibile massacro agli inizi del 1979.

Mentre la Procura di Bologna rincorre inesistenti elementi nuovi, nessuno si occupa delle scoperte effettive, emerse nel corso del processo contro Gilberto Cavallini, conclusosi con la condanna in primo grado nel febbraio scorso. È stato accertato che i resti sin qui attribuiti a Maria Fresu, una delle 85 vittime della strage, non corrispondo al dna della ragazza sarda. La vittima sconosciuta, inoltre, era senza dubbio vicinissima alla bomba, tanto da essere stata quasi polverizzata dall’esplosione. È dunque lecito sospettare che ci sia una vittima sconosciuta e che questa potesse essere la persona che trasportava l’esplosivo, confermando così quanto più volte affermato da Francesco Cossiga, che all’epoca era Presidente del Consiglio, secondo cui si era trattato di una esplosione accidentale avvenuta nel corso di un trasporto di esplosivo da parte dei palestinesi. Sempre nel corso del processo Cavallini,del resto, è stato appurato che nella notte precedente la strage aveva pernottato nell’Hotel di fronte alla stazione una donna in possesso di documenti falsi provenienti da uno stock di documenti falsificati che era già stato usato in due attentati contro aerei, uno riuscito,l’altro sventato per caso all’ultimo momento.

Neppure è stata data alcuna importanza alle informative del colonnello Giovannone della primavera 1980, che dovrebbero essere desecretate a breve: c’è il parere favorevole del Copasir e della presidenza del Senato, manca ancora quello della presidenza del consiglio. Nelle informative, che si arrestano il 27 giugno 1980, il capoposto del Sismi in Medio Oriente informava di un grosso attentato commissionato dal Fplp (Fronte popolare di liberazione della Palestina) al terrorista Carlos, dell’arrivo di Carlos a Beirut, della sua decisione di accettare l’incarico adoperando per l’esecuzione materiale terroristi europei. Non si tratta, sia chiaro, di materiale probante. Neppure però di carta straccia insignificante, soprattutto a paragone di quanto squadernato con squillar di trombe e rulli di tamburi sulla nuova inchiesta della Procura generale di Bologna.

Non che si tratti di una novità. La decisione di addossare comunque ai neofascisti la responsabilità della strage fu presa già nella notte successiva all’attentato, nel vertice che si svolse a Bologna, come ha più volte raccontato Cossiga e come è confermato dai verbali di quel vertice. La differenza è che sino a pochi anni fa era anche, soprattutto e a lungo esclusivamente la sinistra a mettere in dubbio quella ricostruzione di comodo e a reclamare la verità. Nel clima da contrapposizione da stadio che imperversa oggi, invece, persino materiali risibili come quelli su cui si basa la nuova inchiesta vengono presi da buona parte della sinistra come oro colato, pena il sentirsi tacciare di leso antifascismo e di sfiducia nella magistratura. Di questo clima è senza dubbio in parte responsabile la destra che, dopo essersi disinteressata per decenni della vicenda, la ha in alcune occasioni strumentalizzata, in modo speculare a quello adoperato da una parte della sinistra, a fini di propaganda politica.

Finendo per incappare in vere e proprie oscenità, come il tentativo di coinvolgere il giovane Mauro Di Vittorio, una delle vittime della strage, indicandolo come autore della stessa solo in quanto vicino, all’epoca, agli ambienti dell’autonomia. La sinistra stessa, peraltro, non è stata da meno, trasformando la convinzione nella colpevolezza di Nar in un atto di fede antifascista. Non è una piccola differenza rispetto a un passato non molto lontano e che tuttavia già sembra un’altra era geologica. Non testimonia di un miglioramento nella cultura politica di questo Paese.