Cinquantacinque, ovvero i punti che formano la Dichiarazione finale della Conferenza per la Libia conclusasi nella capitale tedesca. Duecentocinquanta, ovvero le milizie e tribù libiche in armi che dovrebbero essere vincolate al rispetto di un cessate il fuoco permanente e al complicato processo di stabilizzazione messo a punto a Berlino. Tanto più che sul terreno, l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, non ha allentato la morsa sulla produzione e l’esportazione del petrolio libico, una forte arma negoziale nelle sue mani per far sentire il proprio peso.

Dopo avere bloccato alla vigilia della conferenza i terminal petroliferi della Sirte, nel giorno del summit le sue forze hanno fatto interrompere la produzione del più grande campo petrolifero libico, quello di Sharara, e di quello di El Feel, gestito da Eni. Una milizia vicina ad Haftar ha bloccato l’oleodotto che trasporta il greggio dal giacimento alla raffineria di Zawiya, sulla costa del Mediterraneo. Sia i pozzi che la raffineria sono gestiti dalla “MOG”, Mellitah Oil & Gas, la società in joint venture fra Noc e l’italiana Eni. Quindi di fatto sono stati bloccati i pozzi dell’Eni. Ma l’ostacolo più grande, probabilmente, oltre alle rivalità interne, sarà misurare la reale volontà di applicare in pratica quanto hanno sottoscritto a Berlino quelli che fino a ieri hanno continuato a incrementare la propria influenza nel Paese: la Turchia, la Russia, gli altri Stati arabi, in primis Egitto e Emirati Arabi Uniti. Ma anche, seppure più da dietro le quinte, la Francia.

Emblematico è il punto, uno dei 55, contenuti nella Dichiarazione finale approvata al summit di Berlino: il rispetto di un embargo delle armi datato 2011 e da più parti inevaso. E non è detto che la storia non si ripeta. Insomma, per chi fa professione di ottimismo, può azzardare la tesi di un primo passo nella giusta direzione. Ma chi non deve difendere bottega, può permettersi un giudizio più rispondente alla realtà. «Quello ottenuto al summit di Berlino è un risultato modesto – dice a Il Riformista Emma Bonino, già ministra degli Esteri e Commissaria europea, oggi senatrice di + Europa -. Un risultato modesto e tutto in salita. Quindi niente trionfalismi. E niente distrazioni».

E spiega: «La questione – se al-Sarraj e Haftar finiranno per firmare la tregua come pare probabile – è ovviamente quella del follow-up, ovvero chi fa il monitoraggio delle forze in campo, e chi controlla l’embargo sulle armi. Salamé e Unsmil dovrebbero assumere la responsabilità del processo (complicato) di implementazione degli accordi. Ma non c’è ancora ovviamente né una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, né una forza di caschi blu o simili che possa provvedere alla fase di controllo militare (armi e cessate il fuoco). E con quali regole di ingaggio? Né vengono indicati meccanismi repressivi sull’embargo, per il quale le risoluzioni già esistono.

Gli Arabi – prosegue Bonino – non vogliono che a monitorare una tregua siano due contingenti non Arabi (Russi e Turchi), anche se sono gli unici ad avere forze sul terreno. Quindi, tutto o quasi dipende da cosa succede dopo Berlino: se le parti si astengono da ostilità; se tutte le potenze coinvolte si astengono dal sostenerle e da fornire armi ; se un processo politico viene rilanciato sotto l’egida delle Nazioni Unite; se tutto questo viene seguito e monitorato con processi multilaterali efficienti, in cui tutti i partecipanti a Berlino si impegnano in conseguenza». Insomma, una marea di “se” tutti da sciogliere. Ecco allora la Germania pronta a ospitare una seconda conferenza a Berlino, il prossimo mese, per monitorare la situazione in Libia. Lo ha annunciato il ministro degli Esteri tedesco. Intanto, la Libia, continua a essere un inferno in terra.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.