«Chiedo scusa al dottor Uggetti, mai più gogna». Le parole di Luigi Di Maio arrivano a sorpresa in una lettera pubblicata dal quotidiano Il Foglio per suggellare la fine di una stagione politica fatta di insulti, manette e fango. «L’arresto era senz’altro un fatto grave in sé che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco – scrive nel suo “mea culpa” il ministro degli Esteri – ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono grottesche e disdicevoli». Parole dure, rivolte a se stesso e ai suoi compagni di manette quando insieme manifestavano contro l’allora sindaco di Lodi trattato come un mostro per un appalto di 5000 euro e poi assolto dalla corte d’Appello di Milano perché il fatto non sussiste.

Di Maio va oltre e mette in discussione non un fatto singolo, ma l’intero sistema: «Il punto qui è un altro e ben più ampio, ovvero l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale». E cita il caso di Tempa Rossa che portò alle dimissioni di Federica Guidi poi risultata innocente o il caso Eni, altrettanto clamoroso. La lista – ricordano diverse reazioni alla lettera di “pentimento” – sarebbe lunga, troppo lunga e rischia comprendere anche il futuro. Sincere o strategiche e un po’ furbe, le scuse del ministro degli Esteri restano importanti e ora – chiedono Italia viva e Forza Italia – si deve passare dalle parole ai fatti. E i fatti sono dire sì nel governo e nel Parlamento alla riforma Cartabia a partire dalla prescrizione stravolta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Passare dalle parole ai fatti dovrebbe voler dire anche arrivare alla approvazione della responsabilità civile dei magistrati e all’abolizione del carcere preventivo.

Sicuramente la lettera di Luigi Di Maio è un via libera alle riforme di Cartabia. La lezione che qualche giorno fa la ministra ha impartito ai Cinque stelle, in occasione del confronto sul documento proposto dalla commissione Lattanzi, deve aver convinto l’ex capo politico dei grillini a fare un passo in avanti, chiedendo scusa all’uomo che aveva linciato. L’intento è chiaro: levare ogni impedimento per una piena adesione alla maggioranza di governo. E per fare questo Di Maio, seguito subito dopo da Giuseppe Conte che ha condiviso le scuse («Riconoscere gli errori è una virtù»), non ha avuto timore di chiudere la porta in faccia a quello che era il dna del movimento: il giustizialismo. Ora esistono ufficialmente due realtà nate da quello che furono i Cinque stelle.

Una che abbandona la gogna; l’altra capeggiata da Marco Travaglio e dal Fatto quotidiano che resta testardamente a capo del partito delle manette. La reazione più stizzita è stata quella di Alessandro Di Battista. «Le parole di Di Maio? Chiedete a Luigi dei suoi pensieri», ha detto prendendo le distanze dalle affermazioni dell’ex amico e ribadendo la sua idea di presunzione di colpevolezza: «Alessandro Profumo, numero due di Leonardo è innocente perché non ha subito una condanna definitiva quindi i suoi diritti costituzionali sono garantiti. È giusto o sbagliato che in questo momento continui a essere il numero uno di una delle più importanti aziende partecipate italiane? Secondo me è sbagliato…». Come lui la pensa il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, uno che alla sua collocazione giustizialista non ci rinuncia per nessuno motivo.

Le partite che si giocano sono due. Quella sulla riforma della giustizia, che a questo punto molto probabilmente potrà procedere a passo spedito chiudendo due anni da incubo. E quella più politica che ricolloca il movimento Cinque stelle su due fronti opposti: da una parte l’area Di Battista-Travaglio che resta ancorata all’anima populista, dall’altra quella capeggiata da Di Maio-Conte (anche se non in totale sintonia) che si sovrappone all’area moderata del Partito democratico. La lettera di Luigi Di Maio leva dall’imbarazzo il Pd. Ma l’alleanza non è più con i Cinque stelle ma con qualcosa di nuovo e inedito nato dalle sue costole che potrebbe arrivare a mettere da parte anche alcune ossessioni ben radicate in tutta la politica italiana, come il tema dei vitalizi.

Il ministro degli Esteri è arrivato infatti a scrivere: «Per me esiste il diritto della politica di muovere le sue legittime critiche e richieste, ma allo stesso tempo esiste il diritto delle persone di vedere rispettata la propria dignità fino a sentenza definitiva e anche successivamente». Un finale (“… e anche successivamente”) che fa pensare al venire meno delle barricate anche sul tema delle pensioni ai parlamentari che hanno subito condanne. Del resto anche in Senato il voto delle mozioni sui vitalizi è stato solo il tentativo, non andato in porto, di giocare una carta giustizialista che appare sempre più sbiadita.

La vittoria di una battaglia sicuramente decisiva non deve però far credere di aver vinto la guerra. Il giustizialismo è entrato nelle pieghe di questo Paese, ne ha distorto il senso comune, ha eretto gogne mediatiche difficilmente smontabili con una sola lettera. Ma la tappa è importante soprattutto se la riforma della giustizia diventerà non più una chimera ma una realtà. Forse i tempi più bui sono davvero finiti. Anche se a tenere alta la bandiera delle manette non restano in pochi.

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Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica