I paesi europei – in testa l’Italia – si apprestano a spendere la bellezza di 750 miliardi di Recovery Fund sulla base di un debito condiviso. Ma da dove arriveranno tutti questi soldi? La risposta ha un nome: tasse. La Commissione Ue lavora infatti per una serie di nuovi prelievi a livello europeo per ripagare il debito nei prossimi tre decenni. Non sarà facile perché, come ha spiegato Johannes Hahn, il commissario europeo per il bilancio, «gli Stati membri hanno approcci diversi. E la proposta di nuove tasse deve essere equilibrata a sufficienza per essere accettata da tutti».

Molti paesi non sono aperti all’idea di rimborsare le sovvenzioni attraverso maggiori versamenti al bilancio dell’Ue. I leader nazionali non vogliono cedere ulteriori poteri a Bruxelles, specie quando si parla di politiche fiscali. Viceversa, per la Commissione, l’opzione preferita per rimborsare più di 400 miliardi di euro in sovvenzioni più le spese per interessi sono le cosiddette “risorse proprie”. Ovvero nuove tasse raccolte direttamente da Bruxelles. Il resto della cifra del Next Generation Eu – pari a 386 miliardi di euro di prestiti – sarebbe rimborsata direttamente dai paesi membri. L’obiettivo è raccogliere 15 miliardi di euro all’anno al fine di rimborsare i fondi presi in prestito entro il 2058. Allo studio alcune misure fiscali in campo ambientale e digitale.

La prima misura fiscale, per la Commissione, è l’estensione del sistema di scambio di quote di emissione di carbonio – lo strumento europeo per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra – al settore degli edifici e dei trasporti: Bruxelles si augura di raccogliere così circa 10 miliardi di euro all’anno. La seconda misura allo studio è l’ormai famigerata tassa sulle Big Tech, capace di generare 1,5 miliardi di euro all’anno. La terza misura prevede infine di tassare alcune importazioni inquinanti per fermare la delocalizzazione della CO2 ed evitare che le imprese eludano le norme sulle emissioni: questo Meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera potrebbe portare nelle casse comuni da 5 a 14 miliardi di euro all’anno.

Finora queste idee hanno ricevuto consensi limitati, ma per alcuni, la finalità strategica è quella di costruire un vero e proprio bilancio comune dell’Unione. Per arrivarci è necessario che le nuove imposte, quali che siano, restino in vigore anche negli anni successivi per alimentare un fondo europeo per le politiche comuni. Sarebbe un passaggio cruciale verso l’Unione federale. Come ricorda Lucas Guttenberg, vicedirettore del Jacques Delors Centre, think tank ispirato all’ex presidente francese della Commissione europea, «ciò che potrebbe essere fatto una volta per il Recovery Plan può essere fatto di nuovo».

Ma questi ulteriori passi verso l’integrazione fiscale sono ancora visti con diffidenza dai paesi membri che temono di perdere il controllo sulle proprie risorse. Germania, Olanda e Svezia, contributori netti al bilancio dell’UE, sono tra i più riluttanti. A partire dal 2028, l’anno in cui partirà il nuovo bilancio settennale europeo, «i costi del debito creeranno un cuneo nel bilancio. E altri paesi dovranno diventare contributori netti», avverte Guttenberg. Che spiega: «l’Ue – quindi l’Eurozona – ha ora la sua capacità fiscale; la sua struttura specifica avrà conseguenze politiche di lunga durata. Serve un dibattito sull’opportunità di rendere permanente lo strumento di ripresa e a quali condizioni». E i recenti appelli di Mario Draghi, garbati ma fermi, fanno dell’Italia uno dei paesi propulsori del dibattito sul bilancio comune dell’Unione.

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