Cos’è che incanta il lettore di Valérie Perrin? È la sua abilità nel rendere letterariamente semplici le cose della vita che, come ognuno sa, sono molto complicate. Non è da tutti. I francesi tradizionalmente in questo sono maestri – Flaubert, Maupassant, si parva licet – perché hanno una confidenza particolare con le parole, con il “peso” delle parole. E Perrin è leggera nella sua prosa, forse anche troppo per alcuni.

Ha avuto enorme successo con “Cambiare l’acqua ai fiori“, ma forse questo ultimo grosso romanzo (più di 600 pagine) che è primo in classifica, “Tatà” (Edizioni E/O, traduzione di Alberto Bracci Testasecca), è superiore. Se è consentito fare un esempio in fondo sciocco, ma lo facciamo tanto per capirci, è come certe canzoni che non possono non piacere perché corrispondono a gusti diversi. In politichese si direbbe: trasversali. Questa è letteratura importante per i profondi temi che tratta e allo stesso tempo è alla portata di tutti, per usare un’altra espressione un po’ pubblicitaria, ma anche in questo caso per capirci.

E dunque “Tatà”, nel suo stile semplice – ma “lavorato” – s’impone come un piccolo capolavoro. La forza del romanzo è nella intrigantissima storia di Agnès, una donna di grande successo nel mondo del cinema: un giorno la chiamano perché Colette, la sua “zietta” – così va tradotto “Tatà” – è morta. Ma Colette era già morta tre anni prima, sepolta con la sua cerimonia funebre; presenti le persone di Gueugnon, in Borgogna, che le volevano bene, compresi gli amici di Agnès. Insomma, Colette pare sia morta due volte. Però, dato che «non esiste il verbo “rimorire”», di qui parte tutta una lunga storia “a ritroso” nella quale la protagonista, l’io narrante, si getta come un detective alla ricerca di un mistero quanto mai insolito. Dunque va nella cittadina della Borgogna, dove ritrova gli amici di un tempo, vecchie sensazioni. Insomma, scava nella memoria e fa una scoperta clamorosa: decine di audiocassette, le mitiche C120 (per chi le ricorda), sulle quali Colette ha fissato una quantità di cose della sua vita che Agnès ascolta sempre più sbalordita e inevitabilmente incastrata nei ricordi della sua famiglia.

Nella risalita verso la verità, Agnès è dunque costretta a scendere negli abissi della memoria in un doppio movimento carico di tensione psicologica, anche perché nell’indagine si troverà a scandagliare nel passato di Tatà che neppure immaginava. Faccia a faccia, Agnès e Colette, come in un rispecchiamento esistenziale all’apparenza impossibile: la sceneggiatrice di successo è una donna sola come lo era Colette, una semplice calzolaia, solitaria e silenziosa, un po’ stramba; la sua vita è stata definita dall’impegno e dalla generosità, votata soprattutto al riscatto e al successo del fratello, il padre di Agnès, talento musicale. Colette è stata una donna senza figli e senza un amore: proprio come Agnès. Il tutto scorre nell’alternarsi dei pensieri della protagonista e delle parole registrate di Tatà. Ed è un fluire narrativo di grande qualità, pervaso di commozione, sino al chiarimento del mistero che Valérie Perrin sa raccontare con leggerezza.

Non è esattamente una donna felice, Agnès. Ma, di fronte alla strada-impresa che si accinge a compiere, scopre qualcosa di nuovo, come un senso della vita scovato dinanzi a quel mistero: «Mi tremano le mani. Me la prenderò con calma, voglio scoprire quelle cassette poco a poco, come un regalo. Non le ascolterò in ordine, chiuderò gli occhi e lascerò fare al caso, come quando si legge un libro che non si vuole divorare, ma assaporare. Ho tutto il tempo che voglio. Non ho fatto che correre da un successo all’altro. Oggi niente e nessuno mi aspetta, e io non mi aspetto più niente da nessuno. Forse questa è la fortuna, o almeno la libertà».