Non ho mai amato le paraliturgie della prima al teatro d’opera, ancor meno quelle dell’apertura di stagione. Grazie a un amico che mi ha invitato ho però assistito con grande gioia alla prima dell’Otello al San Carlo. Il teatro stracolmo, il pubblico in piedi che intona l’inno, il lungo applauso alla presenza del Presidente della Repubblica, che suonava anche come un applauso alle possibilità di ripresa di una città stremata da un certo torpore farisaico: tutto questo è una cosa bella e ne avevamo bisogno. D’altra parte, l’attenzione e la partecipazione del pubblico erano palpabili, e quella stanchezza stantia da rituale polveroso mi sembrava effettivamente sconfitta dall’entusiasmo per il ritrovarsi tra fastosità sartoriali talvolta esotiche e conturbanti.

La regia di Martone ha ricevuto vibranti contestazioni e dopo ci si interrogava sul perché. Va premesso che lo spettacolo attualizza il contesto storico e geografico della trama, sicché la scena è abitata da gommoni, sbarchi di migranti, militari occidentali su fondali desertici, Otello ha perso il suo “atro tenebror” e la delegazione veneta del terzo atto è composta da burocrati in giacca e cravatta. Ho colto un vociare zuccheroso che evocava il genio di Martone tra un atto e un altro (riguardante, in specie, quel che si può vedere alla fine del secondo: Jago inventa un sogno nel quale ascolta Cassio amoreggiare con Desdemona, e l’immagine del sogno diventa visibile agli occhi di Otello tra residui archeologici e dune notturne).

Alla fine della recita, agli osanna si sono contrapposti gli scotimenti di capo di altri che bocciavano la regia senza appello. Ci sono stati pure i giudizi di mezzo (alcune cose andavano, altre no). Ora, ho l’impressione che la messe di fischi alla regia sia un po’ il frutto della difficoltà napoletana di perdonare a un nostro conterraneo il suo indubbio successo. Ma sono anche qualcos’altro: la contestazione a uno spettacolo reputato brutto, e in questo senso il pubblico contestante per definizione ha ragione. Infine, questo Otello napoletano è bello oppure no? Credo che la regia abbia operato uno svuotamento totale del protagonista: è ridotto a un burattino nelle mani di Jago, subisce il fascino di Desdemona, non ha autorevolezza con i suoi soldati, e l’autorità dogale – nel preludio del quarto atto – lo bacchetta come un fantoccio non all’altezza. Ecco, questo è un Otello non all’altezza.

Chi è all’altezza, invece, è Desdemona (una bravissima Maria Agresta): non scorderemo facilmente quell’Ave Maria cantata tenendo in mano una pistola (in questa regia, la sposa di Otello è anch’essa membro dell’esercito occupante). Desdemona è indignata, arrabbiata, ma continua ad amare il suo generale. Coerente con ciò è la scelta (questa sì geniale) di far scivolare fuori – dal colonnato centrale, come ombre del meriggio – un gruppo di donne che, quando Otello e Jago pronunciano il loro roboante giuramento di vendetta contro il tradimento femminile, crollano al suolo all’unisono. Resta da stabilire se la dinamica psicologica che consente a Jago di distruggere Otello sia sufficientemente sorretta da questo tipo di lettura: la mia risposta è no. Essa dimentica che è nella “negritudine” di Otello, nella sua origine schiava, nel suo sentirsi inferiore che sta la chiave di accesso, per Jago, alla sua coscienza, dove l’amore per Desdemona rappresenta per il moro tutto il suo riscatto.

Del pari, la statura devastante del male incarnato da Jago pure finisce con l’appannarsi. Ma questo è il rischio delle scelte di regia e il rischio ricomprende anche i fischi. Vorrei però ricordare ai lettori ciò che più conta: la musica! Questa musica del Verdi ultrasettantenne è prodigiosa e, con uno sforzo di umiltà, dovremmo tutti ritornare sempre alla fonte dell’opera (musica e parole) per meditare spettacoli possibilmente meno ideologici e più autentici: quella musica che la direzione di Michele Mariotti consente di apprezzare in ogni risvolto della partitura.