L'intervista
Tiger Shi (Ceo Bands Financial): “In Cina abbiamo un problema di sovrapproduzione. I lavoratori meritano salari migliori ma servono più consumi interni”

«Il nostro obiettivo è migliorare la qualità della vita dei nostri cittadini». Tiger Shi, Ceo di Bands Financial, la finanziaria che controlla le transazioni delle materie prime alla Borsa di Hong Kong, è in Italia per incontrare partner e clienti. Voce della finanza cinese di primo livello, versa acqua sul fuoco dopo le fiammate dei dazi di Trump. «La globalizzazione sta cambiando. Ma è tutt’altro che finita. Muri e barriere doganali non possono più interrompere l’interscambio commerciale e industriale che si è creato».
Shi, partiamo dalla «de-dollarizzazione»: il tema è uscito dal dibattito accademico per imboccare la strada dell’economia reale. Le incertezze attribuibili all’amministrazione Trump hanno fatto da acceleratore?
«No, non si tratta solo di una reazione alle politiche di Trump. Da anni la Cina cerca con determinazione di ottenere una maggiore quota di diritti speciali di prelievo (Special Drawing Rights, Sdr, ndr) presso il Fondo Monetario Internazionale. Ma il sistema non ha mai risposto pienamente alle richieste. Ora, con il secondo mandato di Trump, è apparsa evidente l’intenzione del governo Usa di affrontare il problema del debito estero e, di conseguenza, della posizione del dollaro rispetto al resto del mondo. La Cina si è sentita in dovere di prepararsi. È in atto una trasformazione dei mercati dalla portata storica. Penso all’esposizione degli Stati in valuta estera. Le riserve valutarie vanno ripensate. Non possiamo ridurre il tutto a un “fenomeno Trump”».
Tuttavia, c’è chi vede nella rimonta Renminbi/Yuan sul dollaro un tentativo cinese di egemonizzare i mercati.
«La Cina, da sempre, è alla ricerca di soluzioni win-win. Questo significa collaborazione e dialogo. Al contrario, gli Stati Uniti si sono convinti di un gioco a somma zero: ciò che fa bene alla Cina, farebbe male all’America. Noi non la vediamo così. Questa differenza culturale di approcciare i problemi ci ha costretti ad assumere un atteggiamento altrettanto determinato. Ma non significa che la Cina voglia dominare il mondo. Siamo 1,4 miliardi di abitanti. Il nostro obiettivo è migliorare il tenore di vita di questa popolazione immensa. Ma desideriamo farlo in modo pacifico».
E per migliorare la vita di tutti cosa vi serve?
«Sicuramente non una guerra commerciale. Negli ultimi vent’anni, la nostra economia è andata avanti grazie all’immobile e all’export. Questo ci ha trasformati in maniera radicale. Sono emerse delle disuguaglianze che adesso vanno colmate».
In che modo?
«La Cina deve puntare sui consumi interni. Il motivo per cui la Cina è diventata la fabbrica del mondo è anche legato al basso costo del lavoro. Oggi quei lavoratori meritano salari più alti e una vita migliore. Quando i cittadini cinesi inizieranno a consumare di più, sarà un bene per loro, perché vorrà dire che avranno maggior potere d’acquisto, ma anche per l’Europa. Più consumi interni vogliono dire maggiore import, oltre che una minore pressione sulle esportazioni verso i vostri mercati. Il processo è già in corso e va di pari passo con la crescita dei redditi interni».
Tuttavia, in Europa c’è chi vi teme. Si pensa vogliate dominare i nostri mercati con le vostre auto elettriche e materie prime che qui non abbiamo.
«Timore comprensibile. Abbiamo un problema di sovrapproduzione, che il governo centrale ha messo in apice alla sua agenda. Viviamo però in un mondo inevitabilmente interconnesso. Dobbiamo evitare di giudicare un’economia dal punto di vista ideologico. Io sono in Italia per ascoltare. È la seconda volta che Faro Club mi invita (Faro Club, community di imprenditori e professionisti, dedicata al risk management nell’ambito delle materie prime, ndr). La prima è stata a inizio 2023. Anni luce fa. In Cina eravamo appena usciti dal Covid e si era in piena bolla immobiliare. Gli imprenditori allora temevano la tenuta della nostra economia. Oggi le preoccupazioni sono quelle che lei ha citato. Bene, noi investitori, come anche il governo, vogliamo chiarire che questi problemi devono essere affrontati insieme».
Che possibilità ci sono di tornare a fare industria in Cina per le imprese europee?
«Prima delle industrie, deve arrivare la finanza. La Borsa di Shanghai è prossima ad aprirsi alle capitalizzazioni europee. È il segno che globalizzazione e il libero scambio sono ancora vive. Sebbene sotto pressione. L’operazione dello Shanghai Futures Exchange fa parte di una strategia per sostenere il commercio internazionale in Renminbi, quindi non solo in dollari. Dal momento che gli Usa fanno della propria valuta un’arma geopolitica, la Cina deve attrezzarsi. Fossi in voi valuterei questa come un’opportunità. I fondi europei e americani potranno accedere a nuovi strumenti e mercati. La de-dollarizzazione, che oggi è sulla bocca di tutti, potrebbe spingere verso un riequilibrio dei portafogli d’investimento, a favore dell’euro e del Renminbi».
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