Tito Boeri, economista già presidente di INPS, ordinario di economia del lavoro presso la Bocconi, è stato consulente del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione europea e del governo italiano, nonché senior economist all’OCSE. Da due mesi dirige il mensile “Eco”, con cui racconta l’economia. Con lui proseguiamo le nostre interviste ai visionari sull’Europa che verrà.

Professore, i dati sull’occupazione sono realmente buoni?
«I dati sul mercato del lavoro sono molto buoni e indicano che aumentano anche i contratti a tempo indeterminato. E succede in tutti i Paesi dell’area Ocse. Soprattutto in Italia, Spagna, Portogallo: Paesi che avevano subito il colpo della pandemia e quindi avevano un maggior gap da colmare. In più in Italia c’è un aspetto diverso dagli altri Paesi: i salari sono rimasti più bassi che altrove. Hanno perso, con l’inflazione, il 10%. E quando i salari rimangono bassi è fisiologico che la domanda di lavoro aumenti».
Un Paese che ritrova stabilità e occupazione maggiore determina la chiusura di un ciclo populista, dell’estremismo demagogico, e la ricerca di un nuovo asse riformista centrale?
«L’Europa non può continuare, di fronte agli scenari internazionali, a tenere su due piani separati l’integrazione economica e quella politica. Le minacce che ha di fronte sono tali da imporre che ci siano scelte comuni a livello europeo su difesa, sicurezza energetica, politiche volte a mantenere gli approvvigionamenti strategici. Una volta potevamo mettere in secondo piano la provenienza dei microprocessori e delle fonti energetiche, oggi no. Sono temi che vanno affrontati con urgenza».

La priorità della difesa comune. Una guerra nel Mediterraneo e un’altra nel cuore dell’Europa: si può andare avanti senza un esercito europeo?
«No, infatti non si può. Anche perché se ci fosse una nuova presidenza Trump, con un atteggiamento diverso degli Stati Uniti verso gli alleati, è chiaro che noi europei dovremmo preoccuparci di più delle nostre politiche di difesa e sicurezza. Mettendo mano al portafogli, sia chiaro: se lo si fa a livello coordinato, insieme, si riesce a spendere di meno e a essere più efficienti».
Quando parla di dipendenza dai microchip, parla di Cina. L’Europa deve sganciarsi dal gigante cinese, e come?
«Dobbiamo sganciarci. Su alcuni microprocessori può valerne la pena. Nelle politiche commerciali bisogna fare di tutto per diversificare i rischi. Ed essere meno vulnerabili. Nella politica energetica abbiamo iniziato a farlo. Perché abbiamo di fronte regimi totalitari che non esitano a utilizzare quello strumento, il monopolio dei microchip, come arma di ricatto».
L’Europa è stata fino alla metà del Novecento il posto nel mondo dove si sono inventate e brevettate tutte le idee, incluse quelle tecnologiche. Dalla metà del Novecento in poi abbiamo solo importato, trasformato, adattato tecnologie di altri.
«Nell’innovazione ci sono sempre contributi europei, di scienziati europei. Che però vanno spesso fuori dall’Europa perché qui non trovano il giusto spazio. E’ indubbio che nella competizione mondiale sull’AI generativa, l’Europa è tagliata fuori. I grandi player sono Stati Uniti e Cina. Il che ha sicuramente molti svantaggi. L’unico vantaggio è che potremmo decidere di introdurre delle normative soggette a meno condizionamenti rispetto a quello che avviene negli Stati Uniti. Anche qui c’è un problema di scala: bisogna procedere insieme, altrimenti i singoli Stati membri avranno serie difficoltà».

Abbiamo avuto tutti i cicli populisti, in Italia. Adesso abbiamo le elezioni europee e Giuseppe Conte parla di un reddito di cittadinanza europeo.
«Il fatto che a livello europeo ci possa essere un coordinamento dell’assistenza di base, ci può stare. Anche se io sono convinto che il welfare e le politiche del lavoro, così come le pensioni, devono rimanere appannaggio degli Stati nazionali. L’importante è che il Reddito di cittadinanza europeo non lo faccia il M5S sull’esempio di quello che hanno fatto in Italia, che non funzionava e come è noto non mi è mai piaciuto».
Lei vuole gli Stati Uniti d’Europa ma dice che le politiche sociali devono rimanere sotto gli Stati nazionali?
«Sì, la difesa, l’energia, l’immigrazione, le politiche commerciali, le politiche sulla ricerca e le grandi infrastrutture devono essere condivise dall’Unione Europea a livello unitario. Le politiche sociali e del lavoro devono essere lasciate all’iniziativa dei singoli Stati. Il che è anche più interessante per capire quali modelli funzionano e come applicarli: poi gli europei si sposteranno a seconda delle convenienze e delle opportunità».
Serve un welfare che funzioni, e certamente in Italia siamo messi male.
«Il reddito minimo esiste in gran parte dell’Europa, in quasi tutti i Paesi europei. E’ stato introdotto in modo sbagliato, in Italia. Ma il principio è giusto. Adesso Giorgia Meloni nel riformare il reddito di cittadinanza ha introdotto dei principi assurdi: le persone che lavorano, se non hanno figli minori o disabili adesso non hanno più diritto ad essere aiutati, se cadono in povertà. E’ impensabile. Si può essere poveri anche lavorando, e il 12% degli italiani è povero, al di là della sua occupazione. Il lavoro povero è una realtà diffusa. E per chi oggi perde il lavoro e entra in povertà non esistono più soluzioni».

Ma gli italiani oggi, mi perdoni la semplificazione, stanno meglio o peggio di prima?
«Non abbiamo ancora recuperato il terreno perso negli ultimi tre lustri: il reddito pro-capite degli italiani è tuttora al di sotto di quello del 2007, alla vigilia della Grande Recessione. Sono stati quindici anni molto difficili che hanno visto emergere nuove disuguaglianze. A farne le spese, sono spesso i più giovani».
Il voto dei più giovani che però non smuove la politica. Su “Eco” dedica uno studio approfondito alle generazioni che vanno al voto per la prima volta.
«A livello europeo i giovani non votano in modo uniforme, non riescono ad esprimere un loro fronte comune. Non canalizzano in un flusso elettorale univoco il loro affacciarsi alla politica. E l’altra cosa che va notata è che rispetto all’invecchiamento dell’elettore mediano, al quale si rivolgono i partiti, i giovani finiscono per essere marginalizzati».
Si parla di voto utile. Quelli che abbaiano, i partiti sovranisti, che ruolo hanno avuto nel Parlamento Europeo? Anche su questo ha pubblicato sulla sua nuova testata un report dettagliato.
«Noi li analizziamo in relazione alla loro attività nel Parlamento Europeo che mette in evidenza un dato significativo: il peso che hanno i gruppi parlamentari sovranisti sulle decisioni del Parlamento, rispetto al peso che avrebbero potuto avere, è pressocché nullo. ID, Conservatori e Riformisti e l’estrema sinistra arrivano insieme al 20%. Avrebbero potuto avere un ruolo importante in molte decisioni e invece non sono mai riusciti a determinare alcunché. Si autoemarginano, sono minoranza della minoranza: ragionano con logiche nazionali a livello europeo e quindi diventano del tutto irrilevanti. Ne consegue che il voto per questi partiti finisce per essere un voto inutile».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.