Quando trovai a New York “Hunting Che” (Dando la caccia al Che), lessi freneticamente ogni pagina e filmavo nella mia memoria. Eccolo, Guevara, ferito su un treno, colpito al polpaccio, non può più camminare. Quando un soldatino del corpo speciale che lo tallonava gli piantò il mitra sotto il naso e gli chiese: “E tu chi sei?”, tutte le fonti sono concordi nel dire che il prigioniero rispose: “Sono Che Guevara. E sarà meglio che non mi ammazzi perché di sicuro valgo più da vivo che da morto”. Bolivia. 1967. Sulla morte, due versioni. Secondo la prima, con il preavviso di qualche minuto per concedersi un momento di riflessione, fu abbattuto da un solo uomo che gli sparò sei volte. Il colpo mortale nel torace. I patti – con lo stesso Che – erano che avrebbero risparmiato il volto. Non per una cortesia. Il piano era far passare una esecuzione che in realtà era un omicidio, per un fatto d’arme: Che Guevara caduto in combattimento, da eroe, ma morto. Finalmente morto.

La seconda versione prevede il rito molto ispanico del “se va al paseo”: lo mandiamo a fare una passeggiata, che è una prova da stress terribile: tu cammini, anzi nel caso di Guevara ti trascini ferito e dolente, sapendo che dei dardi di piombo incandescente stanno per forarti da parte a parte. Ricordavo in particolare nei suoi diari la descrizione dell’odore del corpo umano alla macchia senza potersi mai lavare o cambiare. L’odore antico una belva preistorica che non sente più altro odore che quello del nemico. Secondo i testimoni di questa seconda versione, Guevara mostrò il suo disprezzo verso i suoi assassini, dando loro del cobardes, vigliacchi, e cadde tremando sul terreno. Fu comunque una messinscena perché nessuno voleva assumersi la responsabilità di un omicidio, spacciato per esecuzione di un verdetto che nessuno aveva emesso, privo di qualsiasi legittimità. Ma il presidente René Barrientos Ortuno, tutto vestito d’azzurro come la Madonna, con fasce e medaglie, aveva deciso di far fuori il Che straniero e di farlo senza chiasso, senza processo, soltanto mostrando poi la deposizione del morto ammazzato, come il Cristo del Mantegna. Ma questo avverrà più tardi nell’ospedale, dove il cadavere già puzzava e la gente girava in tondo per essere sicura che quel morto fosse proprio quello dei giornali. Guevara passò alcuni giorni con i suoi carcerieri che avevano il compito di sorvegliarlo, tenerlo vivo e obbedire agli ordini in arrivo che però non erano chiari.

I più probabili erano uno scambio, un processo pubblico, una estradizione negli Stati Uniti (per quale delitto?) ma soprattutto l’ammazzamento a sangue freddo da spacciare però come un eroico fatto militare. Il Che avrebbe avuto la sua parte di gloria perché era morto con le armi in pugno e i soldatini boliviani, con i loro ufficiali, gloria eterna perché avevano abbattuto in combattimento il tremendo bandito Che Guevara. Fu qualcosa di simile all’ammazzamento di Salvatore Giuliano, comandante di un fantomatico Esercito separatista siciliano sicuro di avere dalla sua i servizi americani, che fu assassinato nel sonno dal cognato (assoldato dal ministero degli Interni) il quale fu assassinato a sua volta in carcere con una famosa tazzina di caffè corretto, un dessert usato anche con Michele Sindona molti anni dopo. Si tratta sempre di ammazzamenti di stato, fatti passare per battaglia intemerata o suicidio inaspettato.

Il Che in Bolivia aveva miseramente fallito la sua missione rivoluzionaria. La Bolivia è uno stato popolato prevalentemente da discendenti dei nativi che non hanno mai visto come possibili alleati dei bianchi colonizzatori, anche se venuti da Cuba con le migliori intenzioni. I campesinos non lo ascoltarono mai e lo tradivano quando potevano per intascare la taglia. Così restò isolato con il suo gruppo di teorici della rivoluzione e del terrore. L’uso del terrore come strumento politico è antico quanto l’uomo ma fu teorizzato da Robespierre e applicato con accuratezza sia da Lenin che da Stalin, per non parlare di Hitler. Guevara provò gusto per il terrore e lo disse e scrisse. Il terrore non significa punire i nemici della rivoluzione, ma uccidere a caso affinché nessuno si senta più sicuro. Ernesto Guevara era un medico argentino di ottima e intellettuale famiglia, con una grande biblioteca e totale libertà ideologica. I suoi viaggi in motocicletta, lungo i fiumi e le strade sudamericane, sono ormai famosi anche se ai nostri tempi, quando la mia generazione moriva di passione e di invidia per il “Che” (che oggi avrebbe 92 anni) non venivano esaltati questi gusti ribellistici e romantici che lo rendevano più simile a Bruce Chatwin che a Mao Zedong.

La passione per uccidere gli venne dopo la disastrosa avventura della famosa barca Granma che scaricò Fidel e Che con un gruppo di inesperti ma determinati guerriglieri sulle piste della Sierra Maestra. Il Che si trovò giorno dopo giorno a fucilare più di trecento prigionieri, funzionari, sospetti, malcapitati. Ed essendo medico, scrisse di aver fatto un’accurata ricerca con la sua pistola per trovare il miglior punto per il colpo di grazia, misurando i secondi fra lo sparo e l’arresto cardiaco. Secondo la leggenda gonfiata da lui stesso, un vizio simile lo contrasse anche Ernest Hemingway durante la guerra civile spagnola, quando – come gli rimproverò lo scrittore Dos Passos – aveva preso un po’ troppo gusto ad uccidere. Personalmente, ricordo il Comandante Carlos della guerra civile spagnola, si chiamava Vittorio Vidali. che conobbi a Trieste nel 1979 e che si vantava di avere una mano con sole tre dita perché il revolver che usava per le esecuzioni gli era esploso per usura.

Ernesto Guevara, riferiscono i suoi carcerieri (le uniche fonti disponibili, ma i racconti collimano sia fra loro che con la personalità del protagonista) mantenne sempre un tono sprezzante: “Volete sapere come diventai il presidente della Banca nazionale cubana?” chiese al capitano Rodriguez che comandava il posto. “No!” disse quello. E Guevara: “Non importa. Ve lo dirò lo stesso. In una riunione fra ministri Fidel Castro chiese chi di noi fosse un autentico economista. Io capii “autentico comunista” e alzai la mano: “Io!” E Fidel: “Allora da oggi la Banca cubana è nelle tue mani”. E, naturalmente, rideva. Se è tutto vero. Secondo i racconti, questo Rodríguez litigava con Che il quale gli dava del servo degli americani e infliggeva a tutti delle lezioni di marxismo molto pedanti. Poi si addormentava e gemeva leggermente perché le ferite lo tormentavano e i suoi carcerieri non avevano nulla da dargli per medicarle e controllare il dolore.

Rodríguez chiese a Guevara come funzionavano i plotoni d’esecuzione a Cuba e il Che rispose: “Noi non fuciliamo cubani. Soltanto agenti stranieri e spie”. E allora Rodríguez replicò: “Be’, qui tu sei uno straniero e un agente straniero. Tu non sei boliviano e hai invaso il nostro territorio nazionale e lo hai fatto con le armi”. Che rispose: “E’ diverso: guarda il mio corpo: vedi? Sto versando il mio sangue sulla tua terra. Questa è una rivoluzione e tu non sai neanche di che cosa parlo”. Poi lo guardò meglio e gli disse: Rodríguez, neanche tu sei boliviano. Parli troppo bene e sai troppo su di me e Cuba. Di dove sei?”. E quello: “Sono cubano come te: facevo parte della 2506 brigata”. Guevara gli chiese se adesso lavorasse per gli americani e quello confermò. Era un suo connazionale che combatteva contro la rivoluzione dopo averne fatto parte. Rodríguez gli disse: “E’ l’ora. Che cosa vuoi che diciamo a tua moglie?”. “Che si risposi e sia felice”, rispose Guevara.

“Preparati, disse Rodríguez. Ti do due minuti”. E uscì. Poi abbiamo le due versioni: quella dell’uccisione nella camera della scuola che era stata la sua cella per qualche giorno, e quella del “paseo” la breve passeggiata verso la sterpaglia. Il corpo fu esposto ai fotografi di tutto il mondo, le mani che avevano delle anomalie furono tagliate e mandate a Fidel Castro affinché si rendesse conto che il morto era proprio il Che. Poi con un ordine segreto il corpo fu sepolto in un luogo segreto e riesumato soltanto una decina di anni fa e chiuso, quel che resta delle sue ossa, in una piccola bara di mogano.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.