La fragile tregua raggiunta tra il governo israeliano di Benjamin Netanyahu e Hamas rappresenta un piccolo passo avanti in un contesto di devastazione sociale e politica a Gaza, con decine di migliaia di civili palestinesi uccisi e una crisi umanitaria senza precedenti. Al centro dell’accordo, che sospende le ostilità per sei settimane a partire dal 19 gennaio, vi è la questione ancora irrisolta degli ostaggi, sia israeliani che palestinesi (quelli detenuti in carcere in Israele, ndr). Sebbene questo rappresenti un nodo fondamentale, dai dettagli trapelati non sembra che la tregua contempli anche una soluzione politica duratura al conflitto, sollevando dubbi sia sulla sua implementazione che sulla sua effettiva efficacia.

L’approccio adottato dal governo Netanyahu, caratterizzato da impegni formali che spesso non si traducono in azioni concrete, non è nuovo. Un precedente significativo è rappresentato dal Memorandum di Wye River del 1998, firmato da Netanyahu, anche all’epoca primo ministro, e da Yasser Arafat, leader dell’OLP, sotto la mediazione statunitense. L’accordo, che mirava all’attuazione degli Accordi di Oslo II, naufragò rapidamente a causa della riluttanza del governo di Netanyahu a rispettarne le disposizioni, citando questioni di sicurezza e accusando l’Autorità Palestinese di non adempiere ai propri obblighi. Esattamente come oggi, la mancanza di volontà politica concreta – denunciata a più riprese anche dall’Onu – minò la possibilità di costruire un processo di pacificazione duraturo.

Tregua misura tattica

Quello di Wye River fu un episodio emblematico perché avvenne al culmine di un decennio di grande impegno diplomatico che portò alla firma degli accordi di Oslo, ma in un clima di crescente tensione tra i miliziani palestinesi – che da lì a breve avrebbero scatenato la seconda Intifada (2000) – e frange dell’estrema destra israeliana, che si opponevano a qualsiasi tentativo di pacificazione. Questo schema sembra ripetersi con la tregua di questi giorni, giunta dopo 15 mesi di brutale conflitto, che appare più una misura tattica per gestire pressioni internazionali e interne che un sincero tentativo di risolvere le cause profonde della guerra – come la creazione di uno Stato palestinese.

Perché  il conflitto è destinato a riemergere

Netanyahu, oggi come allora, è orientato a mantenere lo status quo, utilizzando le leve della politica estera per guadagnare tempo e consolidare la propria posizione politica, evitando decisioni strategiche che potrebbero compromettere il controllo territoriale di Israele. Tali tattiche, improntate più sulla gestione del conflitto che sulla sua risoluzione, rischiano di perpetuare un ciclo infinito di violenza e di erodere la fiducia nelle soluzioni negoziate. La storia insegna che una guerra si può anche vincere, ma senza condizioni di pace giuste e sostenibili, il conflitto è destinato a riemergere. Né nel 1998 né oggi, Netanyahu sembra avere una reale volontà politica di impegnarsi per costruire una pace stabile e duratura per i palestinesi e per gli israeliani stessi.