L’Italia – non dimentichiamolo mai – è il paese del “quando c’era Lui i treni arrivavano in orario” e del “ci sono due tipi di pazzi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato”. Lo stato dei trasporti su ferro è una nostra costante ossessione, forse perché è oggettivamente difficilissimo garantirne il funzionamento ottimale su una penisola stretta e lunga, fatta di montagne e fiumi, colline e valli che si alternano senza soluzione di continuità.

Fatto sta che due milioni e passa di italiani ogni giorno prendono un treno e discutono immancabilmente di orari di partenza e di arrivo, di coincidenze che saltano, di blocchi del traffico su una linea e dei famosi scioperi del venerdì, quelli che permettono un comodo allungamento del week end ad alcuni lavoratori e sofferenze aggiuntive per la stragrande maggioranza di coloro che devono raggiungere una fabbrica o un ufficio.
Eppure, malgrado i problemi oggettivi, i limiti infrastrutturali e le debolezze umane, il sistema ferroviario italiano non funziona peggio di quello di altri paesi europei paragonabili al nostro (Francia, Germania, Regno Unito). La rete, almeno nella sua dorsale principale, e grazie alla lungimiranza di manager come Lorenzo Necci e Mauro Moretti, si è dotata nel tempo di una linea di Alta Velocità performante, e nuovi treni hanno ammodernato le tratte regionali e suburbane.

Sempre con tariffe accettabili e competitive. Mentre – va detto – è in seria sofferenza il trasporto nelle grandi aree metropolitane, con i treni pendolari sovraffollati, ritardi e frequenti problemi tecnici dovuti all’uso intensivo del materiale, e lentamente muoiono molte linee secondarie, soprattutto al Sud, che hanno infrastrutture obsolete e capacità limitata di trasporto.
Poi ci sono altri fattori, che – come in altri grandi ambiti della vita nazionale – aggravano lo stato delle cose: le proteste di gruppi di pressione e pasdaran dell’ambiente contro qualunque opera venga progettata, la lentezza delle procedure di appalto, la smania compulsiva e improduttiva dei controlli, i tempi secolari della burocrazia. E – last but not least – gli avvicendamenti delle governance aziendali, legate ai cicli politici piuttosto che ai risultati. Il che danneggia molto, considerato che stiamo parlando di un’azienda grande e ramificata.

Infine, tutti questi fattori di debolezza trovano periodicamente il loro punto di convergenza nella richiesta di dimissioni del responsabile pro-tempore dei trasporti nel governo nazionale, quando un pezzo del sistema va in tilt. È uno sport nel quale si esercitano destra e sinistra, senza differenze: solo negli ultimi 25 anni sono state chieste le dimissioni dei ministri Lunardi (cdx), Bianchi (csx), Matteoli (cdx), Lupi (cdx), Toninelli (M5S), De Micheli (csx).

E ora tocca a Matteo Salvini, che certo non è esente da difetti, ma al quale è davvero stupido attribuire i pesanti disservizi di questi giorni. La smodata voglia di buttare tutto in caciara e in propaganda non fa altro che evitare l’accertamento delle responsabilità specifiche (se e dove ci sono) e allontanare ancora una volta la possibilità che del grande tema del trasporto ferroviario si discuta da un punto di vista sistemico, non di parte.