La polpa di tutta la faccenda è a pagina 4 del ricorso presentato da Harvard contro 16 dipartimenti ed esponenti del governo degli Stati Uniti. “Harvard”, spiega il ricorso, “rifiuta l’antisemitismo e la discriminazione in tutte le sue forme e sta attivamente facendo riforme strutturali per sradicare l’antisemitismo nel campus”. L’iniziativa giudiziaria è rivolta a contestare i provvedimenti con cui l’amministrazione Trump – addebitando ad Harvard una serie di rilassatezze gestionali, specie riguardo alla discriminazione e alla mancata protezione degli studenti ebrei e israeliani – ha congelato una quota dei finanziamenti destinati all’università.

Harvard ha denunciato la pretestuosità delle accuse, argomentando che il blocco di quei finanziamenti non solo è motivato da tutt’altro, cioè dal desiderio di Trump di interferire nei programmi di insegnamento, ma inoltre insiste in modo indebito su attività di ricerca che non hanno nulla a che fare con qualsiasi questione di carattere politico-ideologico. Non esiste “nessuna connessione razionale”, dice Harvard, “tra le preoccupazioni sull’antisemitismo e la ricerca medica, scientifica, tecnologica”. Quest’ultimo argomento è semplicemente risibile. Rimanda infatti in modo inquietante, per esempio, a certe teorie secondo cui Hamas non dovrebbe essere neutralizzata perché amministra scuole e uffici pubblici. Nessuno – è ovvio – discute del fatto che l’attività di ricerca e sviluppo sia preziosa, ma chiunque capisce che invocarne la protezione “a prescindere”, e cioè anche quando essa è coltivata in un milieu discriminatorio e razzista, equivale a far salva la discriminazione in omaggio alla libertà di ricerca.

Ma torniamo alla “polpa” di cui dicevamo all’inizio. Scrivere, come scrive Harvard, che sono in corso “riforme strutturali per sradicare l’antisemitismo nel campus” significa che l’antisemitismo nel campus è radicato e strutturato. O no? E significa che Harvard ha consentito che vi radicasse. O no? Scrivere, come ancora scrive Harvard nel suo atto giudiziario, che “sono in corso riforme per garantire la sicurezza e l’inclusione ad Harvard delle popolazioni studentesche ebraiche e israeliane”, significa che la sicurezza e l’inclusione ad Harvard degli ebrei e degli israeliani non sono garantite. O no? E significa che Harvard ha consentito che non fossero garantite. O no?

Basta? Non basta. Come riporta The Harvard Gazette, il presidente di Harvard, Alan Garber, “ha riconosciuto che il lavoro per combattere l’antisemitismo nel campus rimane da fare”, che è un altro modo per dire che l’antisemitismo in quella università, come in altre, c’è eccome. Ed è una candida riprova del fatto che non è pretestuoso accusare quell’università di averlo lasciato montare.

Infine appare non solo possibile, ma largamente probabile, che sia anche altro – e persino soprattutto altro – a motivare le intenzioni restrittive dell’amministrazione Trump nei confronti delle università. L’importante è tuttavia che non sia questo rilievo a farsi pretestuoso, e cioè a essere usato – come è successo finora – a protezione dell’andazzo antisemita pagato con soldi pubblici.