Ci sono due modi per leggere Raymond Chandler. Il primo è concentrarsi sulla trama, di solito complicata come un rebus che rimanda a un altro rebus che rimanda a un altro rebus e così via; il secondo è abbandonarsi al narrare chandleriano e alle sue inconfondibili e sapide battute, ai dialoghi scintillanti, alle descrizioni millimetriche dei personaggi.

Ovvio che, se il lettore riesce a combinare le due cose, meglio per lui. Ma è difficile farlo in una sola lettura. Quando vediamo o rivediamo “Il grande sonno” – film diretto dal grande Howard Hawks, con Humphrey Bogart nel ruolo di Marlowe dall’omonimo romanzo di Chandler – si cerca di seguire la vicenda e i tanti rinvii da una storia a un’altra, ma ci si distrae (per così dire) dalle battute stralunate dell’investigatore privato più famoso della storia: «La ragazza ha cercato di salirmi sulle ginocchia ma io ero in piedi». L’inevitabile risatina fa perdere il ragionamento successivo, ma in fondo non fa niente se alla fine non tutto risulta chiaro.

Quel che è certo è che Chandler è stato con Dashiell Hammett il più grande di un’illustrissima squadra di scrittori del genere hard boiled, che arricchì all’inverosimile le grandi major hollywoodiane ma non appunto i suoi soggettisti come il creatore di Philip Marlowe«venticinque dollari al giorno più le spese» – romantico investigatore privato nella Los Angeles degli anni Trenta sempre alle prese con storie assurde, donne belle e ambigue – le famose dark lady – poliziotti ottusi, ricconi senza scrupoli, la sua Chrysler, pistole, cazzotti e tanto whisky.

In questo “La signora del lago” (Adelphi, traduzione di Gianni Pannofino), uscito nel 1943, ci sono un po’ tutti gli elementi classici di Chandler. Qui Marlowe indaga su una donna sparita da un mese: sembra una cosa come tante altre; dopodiché cominciano a sbucare storie e cadaveri di vario genere, e ogni morto rimanda a un’altra storia, a sua volta teatro di un omicidio, finché se ne perde il conto. Il tutto a disegnare un mondo di furbizia e cinismo. La “signora del lago”, «quella che era stata una donna giaceva a faccia in giù sulle assi con una corda legata sotto le ascelle», chi è? I giri che Marlowe dovrà compiere per capirlo saranno lunghi e tortuosi come le stradine che portano a quel lago: «Abbiamo raggiunto Little Fawn Lake, e io ho mangiato tanta polvere da farci una teglia di tartine di fango».

Inevitabilmente Marlowe ha a che fare con i poliziotti, per lo più degli stupidoni che a pelle detestano – forse perché lo invidiano – l’investigatore privato che è più intelligente, più abile, più svelto di loro, e con il quale spesso e volentieri finisce a cazzotti. «Ficca il tuo nasone nei nostri affari e ti risvegli in un vicolo con i gatti che ti guardano», gli fa uno di loro, poco cortese. Ci sarebbe da riflettere su questo sentimento “anti-istituzionale” di Marlowe, tipico della letteratura americana, che mette al centro l’Eroe che deve lottare su due fronti: la criminalità e lo Stato cui deve sostituirsi. Le prende – pure fisicamente – da tutti, anche se poi alla fine vince lui.

Marlowe in più di un’occasione si troverà in guai molto seri, e solo all’ultimissima pagina il quadro verrà in qualche modo ricomposto, anche se inevitabilmente qualche filo ce lo siamo giocato per strada. E non si tralasci la bellezza di certe descrizioni: «Abbiamo raggiunto il lungo declivio a sud di San Dimas che dopo la cresta scende verso Pomona. Lì si è all’estremo confine della fascia nebbiosa, dove comincia quell’area semidesertica in cui al mattino il sole è lieve e secco come Sherry invecchiato, a mezzogiorno è rovente come una fornace e la sera crolla come un mattone scagliato con rabbia». Chandler, che altro?