Nel mentre infuriano sulle prime pagine e nei talk le polemiche sull’“ispezione barese” attivata da una discussa iniziativa del ministro Piantedosi, la trasmissione di La7 100 minuti ha messo sul tavolo la questione Velletri, una vicenda periferica che è però emblematica non solo giudiziariamente. L’inchiesta (per ora solo giornalistica) condotta con indubbia abilità di confezione da Alberto Nerazzini, adombra la tesi secondo cui il popoloso comune a sud di Roma sarebbe sotto il controllo di una branca organizzata della pericolosa criminalità albanese che avrebbe innalzato alla carica di sindaco, in quota FdI un apprezzato penalista del foro locale, Ascanio Cascella difensore del boss Arpaj.

Per di più apprendiamo da un comunicato coi toni della scomunica diffuso da Libera, la prestigiosa organizzazione antimafia fondata da don Ciotti e divenuta una vera e propria istituzione, che il penalista è stato politicamente appoggiato dall‘ex sindaco di Velletri, Fausto Servadio, all’epoca nel partito democratico e oggi trasmigrato in Iv, nominato assessore al bilancio dal neo sindaco Cascella, zio di un noto pregiudicato assassinato qualche tempo prima. A chiudere il quadro il fatto che presidente del consiglio comunale è il suocero di uno dei famigerati fratelli Bianchi, condannati all’ergastolo per l’omicidio del povero Willy Monteiro e che, informa sollecita Repubblica, sarebbe “legato ad una famiglia di Velletri sempre coinvolta nello spaccio di droga”.

La vicenda è delicata certamente, qualcuno potrebbe insinuare che la “questione velletrana” magari è la replica a quella barese salutata entusiasticamente dal centro-destra ed evocare la legge del contrappasso. Ma sia consentito dire che essa non può ridursi al dato meramente penal-criminalistico e che, ferme le legittime riserve di natura politica, essa investe più profili tutti di fondamentale importanza: l’autonomia amministrativa, il rispetto della volontà popolare fino ad uno non meno fondamentale ancorché apparentemente settoriale, l’indipendenza dell’avvocato e con lui la presunzione d’innocenza ed il diritto di difesa. Da ultimo, ma non ultimo, il caso suscita qualche riflessione sul diritto di cronaca e la tutela del segreto d’indagine che una recente iniziativa di Enrico Costa, l’irriducibile garantista di Azione ha messo sul tavolo con una richiesta di inasprimento delle sanzioni verso i giornalisti che pubblichino arbitrariamente atti di indagine violando il divieto posto dall’art.114 cpp.

Innanzitutto per quanti sforzi si possano fare non è dato capire quali siano gli elementi concreti di prova, a parte parentele e parcelle professionali, da cui desumere che Cascella sia un burattino dei suoi clienti. Non dato neanche capire se gli elettori (53,8% di votanti, in linea colla grama media nazionale) siano degli asserviti alle mafie del posto: in genere le grandi inchieste anti-mafia lo presuppongono, ma non risultano ancora arresti di massa tra gli elettori per concorso esterno. Problema non da poco perché implica il rispetto della volontà popolare che giustamente la sinistra invoca per Bari. Ma accanto ad essa vi è non meno grave “la questione Cascella” e cioè quella di un avvocato “marchiato” dal sospetto di contiguità mafiosa e scaraventato nell’anticamera del “mascariamento” senza manco il beneficio del dubbio. Ha il torto di essere uno delle migliaia di professionisti che onestamente difendono imputati per reati comuni e di criminalità organizzata. Senza indulgere alla solita retorica, su questa comunità grava da sempre il sospetto alimentato da procure e corpi investigativi, di una contiguità con l’attività illecita dei clienti. Gli avvocati puzzano di zolfo, e tuttavia ci sono avvocati più maleodoranti degli altri giacché non risulta che analoghi dubbi e scandali siano stati sollevati quando ad incarichi assai più rilevanti di ministri sono assurti legali di ben più prestigioso conio.

Nessuno ha mai sollevato dubbi sui conflitti di interessi tra costoro ed i loro prestigiosi clienti editori, imprenditori, politici etc. E giustamente: è fin troppo ovvio che il difensore condivide col cliente solo un processo e non le idee e men che meno gli scopi criminosi. Eppure per determinati avvocati ciò non vale, sono quelli che difendo boss e criminali pericolosi, per loro lo stigma di inadeguatezza civile è automatico, un pregiudizio vergognoso che è costato troppo spesso la violazione dei loro diritti, dell’intimità familiare e finanche la libertà personale prima di essere assolti senza manco le scuse. C’è poi un ulteriore aspetto: in questi giorni Enrico Costa, deputato di Azione, ha depositato un emendamento per introdurre il reato di “pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale” destinato a sanzionare concretamente la violazione del negletto art. 114 del codice di proc. Penale che nella generale indifferenza vieta di pubblicare gli atti di un’indagine penale sino all’udienza preliminare e nel caso di rinvio a giudizio sino al processo. Di detto divieto la stampa se ne infischia sia per le tenui sanzioni che per una certa tendenza “lasca” della giurisprudenza della cassazione di privilegiare il diritto di cronaca rispetto alla presunzione di non colpevolezza. Eppure qualche domanda ce la si deve porre quando ciò che si fa rientrare nel diritto di cronaca altro non è che l’estratto interessato di materiale selezionato da polizia giudiziaria e procure nel mare di indagini ben più complesse.

Ci limitiamo ad un precedente illustre, quello dell’ex “mafia capitale”, in cui, all’indomani di arresti di massa che coinvolgevano politici romani, gli organi di informazione furono allagati da filmati, intercettazioni e verbali (alcuni letti in conferenza stampa dal procuratore capo dell’epoca Giuseppe Pignatone) e da reportage sui “re di Roma” in corso addirittura d’indagine a mo’ di esca per misurare le reazioni degli indagati. Risultò al processo che il materiale fu confezionato da un apposito “ufficio pubblicità (come lo definì uno degli inquirenti) dei ros. Sull’onda dell’asserita invasione della capitale di una piccola mafietta ruspante, “originale ed originaria” il consiglio comunale di Roma, governato dalla giunta di sinistra di Ignazio Marino, (si lui, il marziano redivivo oggi in SI) giunse sull’orlo dello scioglimento.

L’onta fu evitata sol perché il procuratore Pignatone garantì (e tanto bastò) che la banda mafiosa era stata sciolta e che essa aveva allignato sotto l’ex sindaco di destra Alemanno e non sotto il virtuoso chirurgo siciliano. Pochi capirono quale spaventoso ingorgo istituzionale si era creato con l’indebita sovrapposizione del potere inquisitorio di una parte processuale sull’autonomia delle istituzioni e sulla libertà di voto. Ecco questa storia di velletri, con i debiti scongiuri, ricorda molto quell’antefatto di mafia capitale, terminata poi ingloriosamente in una generale assoluzione dall’ipotesi di mafia. Ovviamente il diritto di cronaca è intoccabile ma non è quello di cui si discute quanto di vere e proprie forme di inquinamento probatorio ed istituzionale che la diffusione di materiale parziale può creare e del rischio di un corto circuito tra pubblici poteri e diritti costituzionali particolarmente pericoloso in tempi di democrazia vacillante

Cataldo Intrieri

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