Per una volta Fedez si rende utile. Ospitando quel concentrato di presunzione che risponde al nome di Piercamillo Davigo. Un fuoriclasse nel mostrare in un solo uomo, tutto quello che mai vorrei essere in vita mia. E cosa ci regala, l’uomo che verrà ricordato per aver prima sostenuto, parlando dei femminicidi, tutto divertito, alla Festa del Fatto Quotidiano, che costano meno tempo e pena di un divorzio, e che passerà alla storia per aver detto degli indagati prosciolti e degli imputati assolti, che “non esistono innocenti ma solo colpevoli di cui non si è riusciti a dimostrare la colpevolezza”, finendo poi lui imputato (e condannato in primo grado)? Una affermazione da manuale, plastica, illuminante.

Alla domanda di Fedez, che ai microfoni del suo podcast “Muschio Selvaggio”, gli chiede se i suicidi degli indagati lo avessero scosso, egli col suo fare da questurino zelante risponde: “I suicidi degli imputati? Capitano. Ma bisogna tenere la barra dritta”. Sono insomma un danno collaterale. E poi sono un danno per i pubblici ministeri perché “comportano la perdita di una fonte investigativa”. Persino Fedez, non proprio un garantista, trasecola e balbetta, inorridito. A voler essere benevoli, è un’affermazione che non significa niente.

In realtà, mi appare di scarsa umanità verso persone detenute in via cautelare (fino al tempo record di un anno) di cui nessun giudice ha ancora minimamente accertato la colpevolezza, e che spesso finivano prosciolte o assolte (cosa che pare per Davigo conti zero, tranne che per se stesso, perché è un altro della infinta genia di moralisti solo con le vite altrui, inflessibile giudice dei comportamenti degli altri, e strenuo avvocato dei propri). Ma rivela anche come egli intendesse, necessariamente, la custodia cautelare in carcere: come strumento utile a estorcere informazioni. Quell’espressione, che derubrica la morte di un uomo solo indagato a perdita investigativa per il pubblico ministero, non vedo come si possa intendere logicamente in altro modo. D’altronde, lo disse lui: “Uno viene messo fuori se parla”.

Mi ha colpito l’espressione di un uomo che ha maneggiato centinaia di vite, le loro libertà, le loro reputazioni, le loro famiglie, e imprese con dipendenti e collaboratori, di cui – altra perla – disse: “In Italia il danno reputazionale non c’è. Quando uno viene preso a fare qualcosa che non si fa, di solito fa carriera”. Sic. Inutile sperare alludesse ai suoi colleghi che sbagliano sulla pelle di tanti di noi, ma avanzano indenni. Davigo offre un atteggiamento notarile, freddo, presuntuoso, per niente dubitativo. Chiunque di noi, ogni giorno e qualunque lavoro svolga, si domanda continuamente se stia facendo bene o sbagliando. Lui no. Il moralizzatore unico a reti televisive unificate che ha pontificato per anni enormità anticostituzionali, influenzando una classe politica pavida, incapace di additarlo come principale colpevole del discredito della magistratura in Italia, continua imperterrito a collezionare perle che rivelano un malanimo verso gli altri e ingenerano il sospetto che ogni suo giudizio valutativo fosse improntato al sospetto grondante pregiudizio: politico, personale, persino di costume. Tangentopoli godette di molto appoggio.

Fu l’inaugurazione del circo mediatico giudiziario, con televisioni e giornali che davano corpo al pregiudizio contro una classe politica percepita come altro dalla società che governava, e responsabile di aver disegnato un’Italia incapace di sopravvivere a quella generazione. Ma se anche andava punita, lo si doveva fare nelle urne, decretandone il declino, e andando oltre, per sposare una mentalità più moderna, che superasse le appartenenze identitarie e ideologiche comunque messe in crisi dalla caduta del Muro di Berlino e dell’Impero del Male, cioè il comunismo sovietico. Invece vollero pensarci loro, i nuovi Robespierre in salsa meneghina. Le inchieste venivano sorrette da continui telegiornali e programmi tv, e dai giornali, tutti, che senza sforzo vendevano copie perché facevano scandalo e omaggiavano il coefficiente di voyerismo in ognuno di noi. Ma i fatti sono fatti, e gli insuccessi restano insuccessi. Sorvolando sulla contestabilissima imputazione come corruzione di quelli che erano finanziamenti illeciti indispensabili a finanziare una politica fondata sulle preferenze e dunque carissima, e sul folle principio giuridico fondato sulla presunzione che l’indagato “non poteva non sapere” per la sola propria posizione, dei 4500 indagati, sputtanati, attinti dal sospetto di essere dei ladri, le cui reputazioni vennero irrimediabilmente uccise, solo 1200 vennero condannati. Come sparare con il bazooka alle formiche.

Ma non bastava. Bisognava che il protagonismo di alcuni magistrati si spingesse fino a un’Opa sulla politica del futuro. Di lì, continue conferenze stampa, dichiarazioni, aggressioni giudiziarie al grande ostacolo sopravvenuto, Silvio Berlusconi, partecipazioni televisive in cui si spiegava agli italiani quanto la classe politica li penalizzasse scegliendo il malaffare anziché il bene comune, e come si dovesse essere e ci si dovesse comportare per ottenere il nulla osta da parte dei vari Davigo. Fu lì che una parte della magistratura si fece politica, con lo scopo di occuparne il vuoto che a mezzo inchieste mediatico giudiziarie andava creando. Corollario di quella stagione fu la creazione di miti tra cui, fulgido, si stagliava quello di Piercamillo Davigo. Fu lì che avvenne l’inversione dell’avviso di garanzia: da garanzia, appunto, per l’indagato, status neutro che prelude all’accertamento di un fatto e una condotta, a sentenza preventiva di colpevolezza condita da gogna. L’unico pm del pool che, dotato di altra qualità rispetto ai suoi colleghi manettari, era Gherardo Colombo, lo ammise: la loro trasformazione in eroi fu “un errore che avvenne non per colpa nostra”. Davigo, vanitoso (basta vederlo dietro le quinte di ogni trasmissione tv cui si prepara) non deve essere mai stato d’accordo.

Ora, dopo l’ennesima brutalità pronunciata da questo signore cui mi vanto di non somigliare per niente, alla politica chiedo una cosa: una legge sull’oblio giudiziario. Delle inchieste su chi viene assolto, non si trovi più traccia nemmeno su Google. Vale persino per Davigo, se dovesse essere assolto dal reato per cui è stato condannato (cosa che gli auguro) ma che in una nazione che si voglia bene non avrebbe mai potuto fare a lungo il pm, tantomeno parlante. E invece si fece persino giudice: Presidente della seconda sezione della Cassazione. Immagino i ricorsi delle difese respinti. Consideratemi poi in ginocchio a pregare tutti i magistrati d’Italia: prendetelo a esempio di come non si deve essere pm. E dimenticatelo. Sarà il migliore omaggio che potrete fare ai tanti magistrati che ci hanno rimesso la vita senza mai sparare stronzate con cui innaffiare il proprio, inutile ego.