Le “flessioni”, per i carcerati non sono azioni di reperimento della forma fisica: il corpo eretto si flette, scende, si piega sopra le ginocchia, espone e apre gli orifizi più reconditi, svela segreti ai poliziotti penitenziari. “Piegati” è uno degli ordini più utilizzati in carcere, qualche volta porta alla luce un oggetto vietato; il più delle volte non porta a nulla. È un’ispezione corporale che qualche volta è necessaria, il più delle volte di routine, discrezionale. Un’invasione massiva dell’intimo, per detenuti e detenute. Esistono ormai strumenti elettronici in grado di evitare l’atto, o di posticiparlo a sospetti gravi. I detenuti, nella pratica lo vivono come atto di genuflessione.

Il maestro Riccardo Muti dice, a ottant’anni, che vorrebbe lasciarsi morire: non si riconosce nel Paese, non ha punti di riferimento; elenca, in un’intervista ad Aldo Cazzullo, una serie di racconti che dovrebbero rafforzare il suo desiderio: la serietà dei maestri, dei padri, degli esempi, di un tempo che non c’è più. Una narrazione in cui si riconosceranno i più della sua generazione. Una storia che si ripete di generazione in generazione, quando il tramonto si annuncia: è lontano il tempo dei nemici da abbattere e incombono i mondi da difendere. Banalmente si potrebbe chiamare conservazione. Ma Muti è un idolo che sorge da uno spartito, si alza per chilometri sopra il resto dell’umanità, non è uno banale: descrive un posto alla deriva, deludente. L’impero della mediocrità. Il decadimento, in ogni senso e in ogni campo. Indiscutibile.

Il fatto è, che quando hai avuto così tanto talento, quando comunque il Posto in cui vivi ha permesso che si esprimesse, hai il diritto di fare le tue valutazioni, e pure la facoltà di essere tu punto di riferimento; perché quelli che al tempo sono stati esempi tuoi, un po’, quella responsabilità se la sono assunta. E allora, anziché lasciarsi morire, si potrebbe essere il motivo ché altri non muoiano, abbiano un punto di riferimento durante la deriva. Quando molte delle istituzioni sociali vanno a zonzo, è necessario che altre aiutino a trovare la via, e non c’è una che sia meno importante di un’altra, quando l’importanza derivi dall’autorevolezza. La filosofia, la poesia, il cinema, la letteratura, il lavoro, la musica: possono stare sopra la politica nella misura in cui sappiano farsi ascoltare, lavorino per il miglioramento della società. Ogni campo può essere un campo giusto. L’importante è che arrivi la salvezza, non la direzione da cui provenga. In Italia lo sport è una delle istituzioni più importanti. Il calcio in particolare. La Nazionale.

Non è un gioco, soltanto: è qualcosa in grado di scuotere più di altro il pozzo profondo della cultura del Paese. Per questo, per quanto ripetitivo, banalizzato, abusato, il gesto dell’inginocchiamento non è un’azione superficiale. E sta nel genio dei campioni sottrarsi al conformismo inventandosi un tocco inaspettato. Le vite dei neri valgono, le vite dei bianchi valgono. Tutte le vite valgono. Valgono pure le vite dei carcerati, quelle che sembra siano state violentate a Santa Maria Capua Vetere, quelle che potrebbero essere violentate ogni giorno, in qualunque altro carcere. È conformismo pure sottrarre il calcio all’importanza che riveste, tenerlo nell’ambito di un gioco. E non è così. La Nazionale italiana è, in questi campionati europei, soprattutto l’abbraccio fra Mancini e Vialli: che è molto molto di più che la vittoria di una coppa. E l’Italia, in questi giorni, lo stato della sua deriva, è tutta nelle immagini che gli italiani stanno vedendo sul carcere casertano. Sulla genuflessione dei detenuti.

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E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.