Il 30 aprile del 1975 Saigon cadeva nelle mani dell’Esercito del nord e dei vietcong. Per gli Stati Uniti, una ferita insanabile. Dopo anni di guerra, massacri, contestazioni, di “odore del napalm la mattina” (come diceva il colonnello William “Bill” Kilgore in Apocalypse Now), di veterani traumatizzati e di giovani arrabbiati per essere mandati a morire in un luogo sconosciuto dell’Asia, l’America metteva fine al suo impegno.

Le immagini fecero il giro del mondo in pochi giorni. Le navi dei profughi, le operazioni per salvare gli orfani e i collaboratori. L’elicottero fotografato sul tetto di un edificio della Cia mentre imbarcava le persone in fuga per l’arrivo dei combattenti comunisti. Un capitolo della storia Usa si chiudeva nel modo più drammatico e precipitoso. Mentre all’interno delle università e delle città americane, la società ribolliva e faceva per la prima volta i conti con una sconfitta.

Gli Stati Uniti avevano perso. E avevano perso contro il loro grande nemico: l’Unione Sovietica. L’avevano fatto con un Paese lacerato. Con una larga parte di studenti che non capiva le ragioni di quel conflitto. E con un enorme movimento di sinistra che vedeva in Ho Chi Minh, Pham Van Dong e nei loro vietcong camuffati nella giungla il simbolo di un mondo diverso, di un Davide comunista armato di kalashnikov che sconfiggeva un Golia capitalista fatto di elicotteri e bombe.

Dopo quella guerra, il Vietnam è rimasto un grande buco nero per Washington. Trasformato in una repubblica socialista guidata dall’unico partito, quello comunista, la nazione asiatica è rimasta solo un lontano ricordo di reduci di guerra, contestatori diventati adulti e di politici e militari che hanno sempre considerato il Vietnam un precedente da non ripetere. Un incubo equivalente a un pantano mortifero. Qualcosa che poi si vide molti anni dopo in Afghanistan, con una guerra ventennale e una ritirata precipitosa da Kabul molto simile, nei modi e nei traumi, a quella avvenuta a Saigon.

Ma se gli apparati americani vedevano nel Paese asiatico un punto di non ritorno, il tempo appare – come spesso accade anche in geopolitica – un gentiluomo sorprendente. Il regno socialista che aveva sconfitto gli Stati Uniti con l’Urss alle spalle e la Cina al confine, si è nel tempo rivelato un elemento molto meno incardinabile nella tipica strategia dei blocchi. E soprattutto con la caduta del mondo sovietico, il Vietnam ha scelto una strada diversa rispetto a quella di molti altri ex satelliti di Mosca.

Aperto al libero mercato, il Paese del sud-est asiatico ha svestito gli abiti dell’utopia comunista per vestire invece quelli di una delle tante “tigri” dell’Estremo Oriente, incastonata in quel Sud-est giovane, scolarizzato, intenzionato a diventare una “fabbrica del mondo” in grado di rosicchiare spazio alla Cina. Il partito comunista è rimasto. Ed è rimasta anche la struttura politica. Sono cambiate non solo le generazioni al potere, ma anche le aspettative di un Paese capace di guardare al futuro con occhi molto diversi rispetto a quelli della sola visione comunista. E questo si vede anche nella sua politica estera.

L’immagine più eloquente è quella di settembre del 2023, quando il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha fatto il suo ingresso (primo fra i capi di Stato americani) nella sede del Partito comunista vietnamita accompagnato dal leader Nguyen Phu Trọng. Il segretario generale del Partito comunista è il simbolo della complessità che si cela dietro i nomi. Come ha scritto Il Foglio, il (vero) leader vietnamita si considera un fautore della “virtù marxista leninista”, al punto che ritiene questa sfida fondamentale anche nella sua lotta alla corruzione, chiamata la “fornace ardente”.

Ma la virtù leninista non significa affatto abbandonare l’“economia socialista orientata al mercato”, né quindi rinnegare quel Doi Moi che ha fatto marciare a tappe forzate il Vietnam con un tasso di crescita del Pil oltre il 6% annuo. E non è un caso che Biden, accolto sotto l’iconica immagine di Ho Chi Minh che campeggia nella sede del Partito, abbia definito il Vietnam “un amico, un partner affidabile e un membro responsabile della comunità internazionale”. “Vietnam e Stati Uniti sono partner importanti“, aveva detto il presidente Usa ad Hanoi. E Nguyen Phu Trọng ha risposto affermativamente, con un accordo di “Partnership strategica comprensiva” che ha reso Washington un interlocutore di Hanoi al pari di Mosca e Pechino. “Possiamo tracciare un arco di progresso di 50 anni tra le nostre nazioni, dal conflitto alla normalizzazione, fino a questo nuovo status elevato”, aveva detto il capo della Casa Bianca. E quella del leader vietnamita si è rivelata una mossa attesa quanto astuta, che non ha confuso né vuole confondere il piano politico da quello strategico.

La Repubblica popolare ha forti affinità con la repubblica socialista del Vietnam, e lo ha confermato anche la visita ad Hanoi lo scorso dicembre del presidente cinese Xi Jinping. Ma nella sfida per il Pacifico tra Cina e Stati Uniti, il Vietnam preferisce mantenere una posizione di equilibrio, sapendo bene che la partnership commerciale con il gigante asiatico ha anche il contraltare di una realtà territoriale molto complicata. Specialmente per quanto riguarda il Mar Cinese Meridionale e le rivendicazioni di Pechino. Hanoi, del resto, non ha interesse a unirsi al blocco delle potenze rivali degli Usa, visto che la globalizzazione e il mercato hanno reso il Paese asiatico uno dei protagonisti dell’economia mondiale.

Tra semiconduttori e manifattura, il Vietnam ha un peso specifico sempre più rilevante. E gli Stati Uniti possono soffiare sul sogno di Hanoi spingendone l’economia ma anche le sue eventuali pulsioni contrarie alle strategie cinesi.

Lo stesso discorso vale anche per i rapporti con la Russia, vecchio alleato vietnamita specialmente in campo militare, e che Washington vorrebbe allontanare gradualmente dalla Difesa di Hanoi. Partita difficile, dal momento che i legami con Mosca sono solidi, anzi, solidissimi. Ma gli ultimi anni, complice anche la guerra in Ucraina, hanno cambiato un po’ pure la percezione della Russia da parte dei vietnamiti. L’anno scorso il Primo Ministro Pham Minh Chinh ha ribadito il pilastro della politica estera del suo paese, e cioè la politica dei “quattro no”: “Non aderire ad alleanze militari, non schierarsi con un paese per agire contro un altro, non creare basi militari straniere nel territorio vietnamita o usare il Vietnam come leva per contrastare altri paesi, non usare la forza o minacciare usare la forza nelle relazioni internazionali”. E su quest’ultimo punto, è chiaro che con il Cremlino possano esserci delle divergenze.

Per il momento, il Vietnam preferisce l’equilibrismo. Comunista ma non chiuso al mercato. Con la Cina miglior partner commerciale, ma non filocinese. Vicino agli Stati Uniti, ma non filoamericano. Cliente militare della Russia, ma non filorusso. Partner economico imprescindibile per l’Unione europea, per il Giappone, l’India e la Corea del Sud. Uno Stato in cui Biden viene accolto come un leader amico proprio nella sede del Partito che ha inflitto al suo Paese la più dura delle sconfitte. E un Paese in cui la portaerei americana Ronald Reagan fa scalo nel porto di Da Nang, lì dove 38 anni fa i vietcong entravano senza sparare un colpo. Un nuovo mondo, ben diverso rispetto a quello celebrato 50 anni fa da chi lo usava come bandiera contro gli Stati Uniti e l’Occidente. Di quel Davide inneggiato nelle piazze è rimasto il Partito comunista.

Ma il Golia di ieri, quello degli “yankee”, oggi non è più un nemico né fa più paura. Le foto dei marines hanno lasciato spazio alle t-shirt e ai social network. Gli elicotteri dei funzionari in fuga sono stati sostituiti dagli aerei di linea carichi di turisti. Gli slogan militari cambiati per quelli del pragmatismo. Mezzo secolo dopo la caduta, Saigon si chiama Ho Chi Minh. Ma il mondo ha già rovesciato l’utopia di chi cantava contro l’America.