Una notte di quindici anni fa il mondo capisce che in America nulla sarebbe stato come prima: Barack Obama diventa il 44° inquilino della Casa Bianca. La nuova first family trasloca nella residenza più importante del mondo; una residenza che persone di colore avevano costruito mentre erano in schiavitù e che adesso persone di colore vanno ad abitare, per la prima volta nella storia. Il nuovo Presidente degli Stati Uniti non ha una grande esperienza politica alle spalle. È apparso sulla scena pubblica nazionale per la prima volta con uno straordinario discorso appena quattro anni prima, il discorso chiave della convention democratica in cui John Kerry viene incoronato sfidante di George W Bush. Era stato un capolavoro di ars oratoria e di retorica (nel senso greco, bello, del termine) quel discorso del giovane senatore dell’Illinois: “Non esistono stati rossi e stati blu esistono solo gli Stati Uniti d’America”. L’audacia della speranza come filo rosso di uno speech che aveva fatto dire a molti addetti ai lavori: questo ragazzo farà strada. Non facile per uno che si chiamava Barack Hussein Obama fare politica nell’America del dopo 11 settembre. Non sembrava un predestinato, non veniva da una famiglia importante. Eppure partendo dal basso era riuscito a conquistare il Senato. E in una fredda mattina di febbraio nel 2007, dalla città di Springfield, Illinois, aveva addirittura osato lanciare il guanto di sfida a quella che sembrava la famiglia più potente del mondo, i Clinton. La famiglia che deteneva saldamente il potere in casa democratica.

La campagna di Obama parte sotto traccia, cresce utilizzando i nuovi strumenti digitali a cominciare dai social che capisce meglio di chiunque altro, si posiziona come alternativa sia alla dinastia Bush sia alla dinastia Clinton. Smuove i giovani, risveglia la passione per la politica, dice “si può fare” offrendo una speranza proprio quando sembra impossibile. Il suo “Yes We Can” più bello risuona dopo la sconfitta delle primarie in New Hampshire, quando la Clinton sembrava essere tornata. Hillary aveva vinto le primarie dopo la batosta iniziale in Iowa e la stampa già scriveva che la stella di Obama era durata appena una settimana. E invece quel “Yes we can” ritmato, ripetuto, in crescendo era il segno che il senatore dell’Illinois era ancora in campo, diamine se era in campo. Yes We Can. Sì, possiamo farcela, possiamo portare il primo Presidente di colore alla Casa Bianca, possiamo restituire fiducia alla politica, speranza alla nuova generazione. Non è questa la sede per dare un giudizio politico sugli otto anni di Obama. I suoi risultati nel campo economico, a cominciare dal Job Act (il cui nome ho copiato e mutuato in JobsAct e quando gliel’ho detto ridendo in un evento delle Nazioni Unite mi ha risposto “Vai tranquillo, è open source”) sono risultati oggettivamente positivi. La politica estera invece è molto più discussa. Ma affido a questo pezzo solo alcuni dei tanti ricordi che derivano dalla straordinaria possibilità che ho avuto di lavorare a fianco del 44° Presidente degli Stati Uniti.

Yes we can": is Barack Obama changing politics?E quando nell’ultimo incontro alla Casa Bianca, poco prima dello State Dinner, con la sua squadra schierata (Biden che nelle riunioni faceva il poliziotto cattivo e nelle telefonate e negli incontri personali faceva lo zio saggio, Kerry, Susan Rice) mi ha detto “Dei tre presidenti del consiglio italiano che ho incontrato sei stato quello con cui la collaborazione è stata più forte e il rapporto più personale” confesso di aver provato un sentimento di orgoglio. Anche se poi non ho resistito e gli ho fatto notare che i presidenti con cui aveva lavorato erano quattro, non tre. Uno se l’era dimenticato e per carità di patria non dirò chi. Io ero un giovane e anonimo presidente della provincia quando Obama aveva cominciato la sua cavalcata. E mi sembrava impossibile che potesse farcela. Ma appartengo a una generazione che è stata segnata da quel Yes We Can. Se ho imparato a sognare, probabilmente, lo devo al carattere. Ma se ho imparato a rischiare, sicuramente, ha influito la storia del senatore dell’Illinois. Già leggo le battutine: bella fine che hai fatto a rischiare così tanto e giù ironie sul referendum. La verità è che se io non avessi saputo rischiare, sarei ancora ad amministrare nella mia bella Firenze.

Il Yes We Can spazza via tutti gli alibi e i piagnistei di una generazione di giovani politici che fino ad allora faceva solo i convegni sul rinnovamento generazionale e diffondeva rassegnata i propri “Bisognerebbe”, “Si dovrebbe”, “Servirebbe”. Prima dell’avvento del Yes We Can lamentarsi del mancato rinnovamento generazionale era un dovere morale per i giovani amministratori. Dopo che un semi sconosciuto outsider dal nome improbabile cresciuto tra l’Indonesia e le Hawaii aveva sconfitto i Clintons, lamentarsi e basta diventa un insulto alle nostre intelligenze. E allora è nel 2008 di Barack Obama che decido di rischiare tutto candidandomi a Sindaco di Firenze contro il gruppo dirigente del mio partito, contro il Sindaco uscente, contro i sondaggi.

Tra me e me dico: dovrò personalmente dire a Obama che è grazie a lui se una generazione di politici italiani si è scrollata la polvere e ha iniziato a provarci. Perché dalla vittoria di Palazzo Vecchio in poi per i giovani politici in Italia si è aperta una stagione oggettivamene nuova. Dopodiché mi ricordo di essere il sindaco di Firenze e mi dico che non incontrerò mai Obama. E sarà bene che mi metta a lavorare sulle buche della città e sulla pulizia dei tombini, senza fare troppi voli pindarici. Ma dopo appena qualche mese arriva la possibilità di dire personalmente il mio grazie. Vengo invitato quasi per caso alla Conferenza dei Sindaci americani di Washington: sono l’unico europeo presente. Nel programma c’è un incontro con il Presidente. Grazie all’aiuto dell’ambascia di un giovane diplomatico, Niccolò Fontana – con il quale condivido un passato da arbitro e un presente da tifosi viola – vengo invitato anche alla Casa Bianca con gli altri sindaci. Alla fine ho una manciata di secondi per stringere la mano al Presidente, dire il mio impacciato grazie e scoprire che in Italia ha assaggiato quello che ritiene il miglior vino della sua vita, che è il Mormoreto di Frescobaldi. Secondo me Obama ha sempre confuso il Mormoreto con il Masseto, entrambi della stessa storica casa vinicola e con un nome che può suonare simile per uno straniero. Ma non gliel’ho mai detto.

Quello che invece gli ho detto più volte – a cominciare dall’Aja dove andiamo per il vertice contro la proliferazione delle armi nucleari, vertice che allora sembrava inutile e che oggi invece andrebbe ripreso, caspita se andrebbe ripreso – è che l’intero mio governo nasce da quel Yes We Can. Il fatto che tanti ministri che io ho nominato e voluto abbiano preso le distanze dalla nostra esperienza e della mia leadership non toglie nulla alla constatazione di una realtà: quel Governo lì nasceva come una incredibile svolta per la gerontocratica politica italiana. Era nato sotto il segno della campagna obamiana e nasceva nel solco della storia vincente della sinistra di Blair. Ricordo ad esempio proprio all’Aja quando presentai al Presidente una emozionatissima Federica Mogherini, appena designata alla guida della Farnesina, che gli spiegò meglio di chiunque altro come il nuovo governo fosse ispirato a questa svolta riformista. Erano i tempi in cui il PD vinceva le elezioni, non solo le primarie. I tempi in cui ministri e parlamentari del PD avevano (o forse mostravano) il coraggio di scegliere una strada nuova. I tempi in cui la vecchia guardia giurava di farci fuori ma la sindrome dei beneficiari rancorosi non era ancora diventata un’epidemia al Nazareno.

Lo dico senza rimpianti perché io, personalmente, sto benissimo come sto, dove sto, con chi sto. Ma lo dico perché chi ha abbandonato quel progetto non ha abbandonato me, ha abbandonato se stesso. L’inizio del rapporto con Obama è fantastico, coronato da un bilaterale a Villa Madama in cui persino i giornalisti più polemici notano che è andato tutto bene. Se nella prima telefonata di rito dopo il giuramento la Casa Bianca mi aveva messo in guardia dal rischio “di finire come la Grecia” perché quello era il clima di quegli anni adesso è come se Washington con il nuovo esecutivo torni a credere nell’Italia.

Lo fa innanzitutto perché Obama ha sempre stimato molto Napolitano: quando l’ex Presidente italiano viene ricoverato per una operazione delicata nel 2018 sono a Johanesburg con Obama per il ricordo di Nelson Mandela. Gli dico della situazione di Napolitano e gli chiedo se ha voglia di scrivergli due righe di incoraggiamento: lo vedo sinceramente affezionato e subito impugna la penna – rigorosamente a sinistra, da buon mancino – e scrive un pensiero personale.

Lo fa perché l’America ha bisogno dell’Italia. Ma lo fa anche perché con il nuovo Governo cresce la fiducia che possiamo farcela. Yes, we can. Non a caso Obama visto da vicino è un uomo che scherza con tutti i ministri di allora. A Franceschini dopo una visita al Colosseo dice: “Ministro della cultura in Italia, è il lavoro più bello del mondo”. E peccato che Dario non abbia avuto il tempo di spiegargli le sue teorie su come vincere un congresso o lo slogan tipico della politica franceschiniana che è un po’ diverso dal “Yes We Can” ma che soprattutto non si può scrivere su un giornale. Padoan è il “wise man”, un po’ perché è vero, un po’ perché accanto a me chiunque sembrava più saggio. Con Pinotti e Gentiloni, specie alla Nato, sempre sorrisi e abbracci. E poi ad Obama piaceva che la nuova generazione si sia formata nelle città, in prima linea come sindaci, lui che era fiero di aver cominciato come community organizer.

Anche se nel momento di maggiore scontro verbale mi farà una battuta polemica proprio su questo: “This is not a city council, this is White House”. E dire che nel merito avevamo ragione noi. I Paesi del G7 europei avevano predisposto una nota con l’amministrazione americana dopo il vertice in Galles della Nato. Ma noi non eravamo stati formalmente coinvolti, perché la consuetudine era considerare la firma dell’Italia già ottenuta. E allora pur condividendo il testo del documento avevo fatto ritirare la firma. Perché per un fatto di principio l’Italia merita la stessa considerazione degli altri. Mi ero impuntato su una questione di forma. Ma in realtà avevamo ragione noi: alcuni uffici della Casa Bianca (e anche di qualche altro Paese “amico”) erano ben lieti di non includere Roma nella prima cerchia delle consultazioni. E io di conseguenza bloccai il comunicato stampa condiviso e staccai il telefono per qualche ora. Nella successiva telefonata di chiarimento politico dissi che non avrei mai potuto accettare un mancato coinvolgimento tempestivo e formale dell’Italia. Obama che pure era partito dicendo “Questo non è un consiglio comunale”, con una evidente polemica rispetto a mio lavoro precedente, alla fine fu costretto a darci ragione. E debbo essere onesto: negli anni successivi, almeno fino a Trump, l’Italia è stata sempre coinvolta dal primo minuto.

Ho naturalmente mille ricordi del Presidente. Dalla telefonata in cui mi chiede 400 soldati per vigilare che un’azienda italiana sistemi la diga di Mosul ai G7 e G20, compreso quello in Baviera dove senza volerlo con il portavoce Filippo Sensi gli creiamo un bel grattacapo: siamo in una terrazza a chiacchierare soli Obama ed io e Filippo ci fa una foto di quelle rubate, per testimoniare ai media italiani il feeling personale. La pubblica. I media italiani non se la filano nemmeno per sbaglio. Quelli americani sì. E certo non per me. Ma perché Obama sembra avere in mano un pacchetto di sigarette dopo che aveva annunciato pubblicamente che aveva smesso di fumare. O le considerazioni sul come sia difficile per un leader amato spostare i propri voti sul proprio partito. O le discussioni sulla disinformazione e sull’utilizzo da parte dei russi di canali di propaganda inediti. O la volta in cui mi porta a vedere la stanza dove lavora davvero, che non è la Sala Ovale ma una stanza accanto alla camera Lincoln al primo piano della Casa Bianca. E mi fa impressione vedere in questa stanza un numero incredibile di libri affastellato in tutta la stanza: libreria, divano, pavimento. Al G7 di Ise-Shima in Giappone, nel 2016, provo il colpo grosso e gli dico: “perché non fai l’ultima visita in Italia? Cogli l’occasione di andare dal Papa a salutarlo e stiamo insieme in questo Paese che ami tanto” e lui di rimando: “Non posso tornare in Italia a distanza di due anni. Ma ho una sorpresa per te, nelle prossime settimane capirai.”

 

bebe vio obama

Effettivamente qualche giorno dopo i nostri uffici ricevono la richiesta di essere gli ospiti d’onore dell’ultimo State Dinner del Presidente: così accadrà, alla fine, nell’ottobre 2016. È un grande onore cui noi cerchiamo di essere all’altezza con una delegazione di altissimo livello non solo politico. C’è Benigni che si diverte a dire a Obama: “Stai attento a Renzi, vuole diventare un dittatore” giocando sopra la propaganda referendaria di quelle ore. C’è Sorrentino che si annoia e cita un fantastico volume “Una cosa divertente che non farò mai più”. C’è Bebe Vio che scappa alla sicurezza e si fa un selfie con il Presidente. Ci sono personalità di prim’ordine, da Giorgio Armani a Fabiola Gianotti. E ci sono naturalmente le signore: Michelle e Agnese erano già state insieme – con le figlie Sasha, Maila, Ester – al Cenacolo nei giorni della visita della First Lady all’Expo. Ma è alla Casa Bianca, tra una iniziativa nell’orto presidenziale e un concerto di Gwen Stefani che si apre il dibattito sull’uso della Playstation coi figli (Michelle e io favorevoli, Obama e mia moglie contrari) come fossimo due coppie normali, a cena, a mangiare una pizza. Che poi sta cosa della contrarietà alla Playstation è l’unica che continua a non andarmi giù. Ma ormai i figli sono grandi e il dibattito può ben essere accantonato.

Con Obama ho avuto anche alcune visioni politiche diverse. Sui paesi arabi, a cominciare soprattutto dall’Egitto e poi dai paesi del Golfo. Sulla Russia, nonostante che la Casa Bianca apprezzasse il disegno strategico del nuovo CEO di Eni Descalzi, che noi chiamavamo Claudio l’Africano, per testimoniare il desiderio di passare da una dipendenza est ovest incentrata su Mosca a una relazione nord sud più capace di valorizzare l’Africa. Anche se quando presi l’iniziativa di invitare Putin e Poroshenko a un tavolo di discussione nel novembre 2014 Obama era informato (e favorevole) del nostro tentativo di chiudere le tensioni riconoscendo a Russia e Ucraina in Donbass uno status quo simile a quello dell’Alto Adige dopo l’accordo italo austriaco. Su Iran e Cuba, due Paesi per il cui rientro nella comunità internazionale Obama si è speso molto. La politica estera, a mio avviso, non è stato il settore migliore per l’ex senatore dell’Illinois. Un autorevolissimo esponente della sinistra mondiale, uno tra i più qualificati capi del governo della storia del secolo mi ha detto una volta: “Obama non è un leader politico, è una rock star”. Il giudizio è ingeneroso. Ma certo è che nessuno come Obama è stato capace di colpire l’immaginario collettivo di una intera generazione.

E quando, conoscendo la mia passione per i suoi discorsi (il più bello per me rimane quello di Tucson in Arizona, dopo l’attentato alla deputata Gabrielle Giffords) mi passa in anteprima il testo che l’indomani avrebbe pronunciato come primo Presidente della storia in visita a Hiroshima, vedo che anche nei discorsi fa uso di copywriters, certo. Ma ci mette sempre del suo. Perché Obama è stato una rock star, certo. Ma è stato anche un leader politico di quelli che hanno scritto la storia. Chi lo ha visto all’opera, dalla conferenza sul clima di Parigi ai dibattiti sul terrorismo, non può che essere grato per averlo incontrato. E per aver imparato a dire che Yes we can non è uno slogan ma uno stile, uno stile di vita e di politica.

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Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista