Israele trattiene il fiato mentre l’offensiva annunciata dal governo sembra prendere definitivamente corpo. Due giorni fa, le frasi del primo ministro Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant avevano dissipato i dubbi dei più scettici sull’invasione della Striscia di Gaza. E le Israel defense forces hanno preparato il terreno per giorni. Le foto satellitari dei carri armati ammassati lungo il confine della Striscia hanno mostrato il consistente dispiegamento di forze messe in campo da Israele prima di dare il via all’offensiva. E anche il maggiore generale Mishel Yanko, responsabile della logistica delle Tsahal, ha confermato la piena capacità dell’esercito di avviare l’assalto. La guerra, ripetono i più alti funzionari israeliani, non sarà breve né semplice. A sottolinearlo è stato anche il capo del comando meridionale, il generale Yaron Finkelman, che non ha manifestato alcun dubbio sulla vittoria contro Hamas e il Jihad islamico, ma non ha neanche voluto dare false aspettative sul conflitto, ribadendo che potrebbe rivelarsi “lungo e intenso”.

Tutto, in effetti, fa credere che l’operazione nella Striscia rappresenti una sfida enorme a livello tattico quanto strategico. E se la visita in Israele del presidente degli Stati Uniti Joe Biden è servita a chiarire le “linee rosse” della Casa Bianca e i timori dell’amministrazione democratica sul potenziale allargamento del conflitto, questo ha probabilmente anche costretto i comandi dello Stato ebraico a modificare una parte del piano, che infatti non è stato repentino come molti si aspettavano. Per Gallant, che ha incontrato i membri della Commissione Affari esteri e Difesa della Knesset, il piano di guerra consiste in tre fasi. La prima è rappresentata da raid aerei e navali e dalla successiva manovra via terra “per l’eliminazione dei miliziani e danneggiare l’infrastruttura in modo da sconfiggere e distruggere Hamas”. Questa fase è quella in corso: con i bombardamenti che martellano Gaza dal giorno in cui la milizia palestinese ha colpito al cuore Israele. I missili continuano a fare vittime illustri, tra questi l’ultimo è Amjad Majed Muhammad Abu ‘Odeh, coinvolto proprio nell’orrore del 7 ottobre. Non mancano però anche vittime collaterali. Le forze armate israeliane hanno ammesso che a seguito del lancio di un missile è crollato un edificio del complesso della chiesa ortodossa di San Porfirio di Gaza, uccidendo 18 persone che vi avevano trovato rifugio. Un portavoce delle forze dello Stato ebraico ha dichiarato di potere affermare “in modo inequivoco che la chiesa non era l’obiettivo del nostro raid”, che puntava al contrario a un centro di comando e controllo di Hamas.

Purtroppo, la guerra nella città e l’uso da parte delle milizie palestinesi di infrastrutture civili come centri militari fa sì che queste tragedie non siano mai completamente evitabili. E il timore è che questo possa avvenire anche con l’assalto via terra, mettendo a rischio popolazione e ostaggi. Due di loro, cittadine americane, sono state liberate da Hamas. La seconda fase del piano consisterà in una fase di combattimenti ma di intensità minore, e servirà a “eliminare i nidi della resistenza”. Nella terza fase, infine, si punterà alla “creazione di un nuovo regime di sicurezza nella Striscia di Gaza”: una nuova realtà che varrà sia per quanto concerne la responsabilità di Israele per la regione sia per i cittadini dello Stato ebraico e gli abitanti palestinesi.

Le parole di Gallant confermano così il tema che ha scaldato la diplomazia in queste settimane, in particolare quella Usa. Dai primi giorni del conflitto, il futuro della Striscia e dei suoi abitanti è uno dei principali punti interrogativi della politica mondiale, poiché i Paesi limitrofi sono preoccupati dal potenziale arrivo di milioni di profughi mentre gli Stati Uniti hanno più volte posto l’accento sui rischi strategici dell’occupazione di Gaza. Gallant, rivolgendosi alla commissione, ha in qualche modo fatto intendere che l’ipotesi del “regime change” sarebbe parallela a una deresponsabilizzazione di Israele riguardo l’amministrazione della Striscia. Ma il vuoto di potere non è un’opzione percorribile per Washington né per i Paesi coinvolti nella crisi mediorientale.

L’altro punto interrogativo rimane il potenziale allargamento della guerra. Dopo la notizia degli attacchi con i droni alle basi statunitensi in Iraq e Siria e dopo la rivelazione del Pentagono sul cacciatorpediniere Usa nel Mar Rosso che ha abbattuto missili e droni lanciati dagli Houthi in Yemen e “potenzialmente diretti contro Israele”, il pericolo di un incendio che coinvolga tutte le milizie filoiraniane è ritenuto sempre più concreto. La galassia sciita che fa capo a Teheran ha la sua punta di lancia in Libano, dove l’arsenale di Hezbollah continua a fare paura. Ieri si è registrato l’ennesimo lancio di missili dal sud del Paese dei cedri contro Israele e le Idf hanno risposto con raid contro Hezbollah lungo tutta la Blue Line, la linea di demarcazione che divide i due Stati. L’annuncio dell’evacuazione degli abitanti di Kiryat Shmona, città israeliana a ridosso della frontiera libanese, conferma che gli scontri a fuoco potrebbero intensificarsi anche nei prossimi giorni. Gli occhi del mondo sono puntati ora anche sull’Egitto. Da un lato per il destino del valico di Rafah, porta d’accesso degli aiuti umanitari per la Striscia di Gaza. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha detto che “è impossibile essere al valico di Rafah e non avere il cuore spezzato”. E Biden ha annunciato il raggiungimento di un accordo che prevede la riapertura della frontiera nelle prossime ore per il passaggio dei primi camion con beni di prima necessità. Dall’altro lato, l’attenzione è rivolta al summit voluto dal presidente Abdel Fattah El-Sisi, in cui si discuterà della guerra. Al Cairo, si spera che i leader che hanno raccolto l’invito egiziano riescano a delineare una road-map condivisa per gestire la crisi.