Sono passati quarant’anni anni da quando, il 2 agosto del 1980, una carica di esplosivo, all’interno di una valigia lasciata nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, fece crollare un’intera ala dell’edifico, investì i passeggeri assiepati sul primo binario e gli avventori del buffet. Erano le 10,25, i morti furono oltre ottanta, più di duecento i feriti. Il 2 agosto del 1980 ero segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna. Ero stato eletto il 2 maggio di quello stesso anno. Mi pregio di essere stato l’unico socialista dal dopoguerra ad oggi ad aver ricoperto quell’incarico in una regione in cui il Pci governava, dal dopoguerra, praticamente ovunque, spesso con la maggioranza assoluta. Ero tornato a Bologna, in famiglia, all’inizio del 1974 dopo una esperienza alla Fiom di ben nove anni, di cui circa quattro nella segreteria nazionale. Ed ero entrato a far parte della segreteria regionale della confederazione, dove conobbi un grande dirigente sindacale come Giuseppe Caleffi, il cui insegnamento fu molto importante per la mia formazione.

Divenuto prima segretario generale aggiunto, se ben ricordo nel 1978, arrivai al vertice di una organizzazione che aveva più di 800mila iscritti ed era il ‘’granaio’’ della Cgil. Ricordo quegli anni con orgoglio per il fatto di appartenere ad un’organizzazione che, nonostante l’uso di una sorta di Manuale Cencelli delle correnti, sapeva riconoscere il merito. Basti pensare che mentre io dirigevo l’Emilia Romagna un altro socialista, Alberto Bellocchio – un carissimo amico – era segretario generale della Lombardia. Mantenni quell’incarico (sostanzialmente ad personam perché dopo venne riconsegnato al comunista Alfiero Grandi) fino al 1985, quando, eletto segretario generale della Federazione dei Chimici (l’acronimo, Filcea, sembrava il nome di una fanciulla), tornai a Roma. Il mio vice era Sergio Cofferati.

Negli undici anni trascorsi nella mia ragione ne capitarono di tutti i colori: la strage del treno Italicus nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974; le sommosse del 1977 dopo l’uccisione dello studente Francesco Lorusso (nel settembre Bologna fu persino teatro di una manifestazione internazionale contro la repressione); la strage alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 e, per finire con le bombe, l’attentato al Rapido 904, la cosiddetta strage di Natale del 23 dicembre 1984. Poi – sul piano politico – dovetti affrontare, da separato in casa con i compagni comunisti, il tormentone della scala mobile tra il decreto del 1984 e il referendum dell’anno successivo.

Tornando al 2 agosto, quel giorno del destino cadeva di sabato. Io ero agli sgoccioli del mio periodo feriale sulla riviera romagnola. Sarei rientrato il giorno dopo per essere in ufficio il lunedì. La notizia mi raggiunse in spiaggia udendo una signora che la stava attraversando piangendo e gridando: ‘’Hanno messo una bomba. Ci sono tanti morti’’. Pensai subito alla mia città; mi precipitai dal bagnino (allora non c’erano i cellulari) e chiesi di telefonare in sede. Mi rispose Adelmo Bastoni, il responsabile organizzativo, un grande compagno modenese, che era già sul posto. Capii dalle sue sommarie informazioni quanto fosse grave la situazione. Sistemate alcune questioni di carattere famigliare (mio figlio aveva 12 anni e doveva essere accudito) rientrai a Bologna in serata.

I giorni immediatamente successivi li impiegai a partecipare ad incontri con le istituzioni, ad organizzare iniziative di protesta, a tirare le fila delle azioni di protesta che il sindacato poteva e doveva promuovere in quel momento. Ricordo soltanto che la domenica sera, insieme con Roberto Alvisi (mio storico collaboratore), incontrai Claudio Sabattini e Francesco Garibaldo, i quali erano in stazione il giorno precedente ed erano scampati miracolosamente all’esplosione. Parlammo anche della vertenza Fiat – Sabattini era il segretario della Fiom per il settore auto – che era in corso da mesi e che finì nell’autunno dopo 35 giorni di sciopero ad oltranza e lo shock della Marcia dei Quarantamila. Un esito che cambiò la storia del sindacato ed anche la vita di Claudio (a cui fu attribuita l’intera responsabilità di una sconfitta che pure aveva tanti altri padri).

Alcuni giorni dopo si tenne, a Bologna, la prima manifestazione commemorativa in piazza Medaglie d’Oro, a fianco della stazione ferita a morte, a cui mancava un’intera ala. Parlò Renato Zangheri, allora sindaco della città. Un discorso che andrebbe letto ancora oggi nelle scuole. Ricordo che, alla fine, chiese scusa alle vittime e ai loro parenti, perché le sue ‘’ultime parole non erano di commiato, ma di lotta’’. Erano tempi fatti così. I politici e i sindacalisti dei nostri giorni hanno sentito scoppiare solo i mortaletti la notte di Capodanno.