Lo scenario
A 80 anni dal 1945 l’Europa si riarma: il debito comune e le nuove regole di bilancio
La ricetta ottimistica dell’economista del Centro Einaudi, Arfaras: ReArm Europe può partire con «un debito comune che copra le risorse previste». Quindi niente tagli alla sanità, le obbligazioni di von der Leyen seguono la filosofia Sure

È evidente che il nome ReArmEurope non può suscitare le stesse reazione di Green Deal, Recovery Plan o Bussola della competitività. Per un’Europa che vive in pace da ottant’anni esatti – e che si è integrata proprio per evitare successivi bagni di sangue dopo due conflitti mondiali – l’idea della corsa agli armamenti spiazza. D’altra parte, una cosa è vivere a Roma, un’altra a Tallinn, dove l’artiglio dell’orso russo comincia a solleticare l’opinione pubblica da molto vicino. Andando oltre al nodo della comunicazione – in effetti, questa volta, Bruxelles ha toppato – il piano presenta ulteriori complicazioni. Di natura politica e di conti pubblici. Ma non irrisolvibili.
«Si può fare!» Giorgio Arfaras, economista del Centro Einaudi, è ottimista. «Emettendo un debito comune che vada a coprire gran parte delle risorse previste. La quota restante, quella minore, spetterebbe a ciascun Paese, con delle regole di bilancio tali per cui queste spese militari non vengono contabilizzate secondo le regole oggi in vigore». Le obbligazioni previste da von der Leyen seguono la filosofia Sure (Support to Mitigate Unemployment Risks in an Emergency), lo strumento finanziario creato nel 2020 per aiutare gli Stati membri a finanziare misure di sostegno all’occupazione durante la pandemia. Questo smonta il teorema per cui l’Ue toglierebbe i soldi agli asili per farne cannoni. Accusa nata proprio strumentalizzando il nome del piano. L’Europa è la madre dello Stato sociale. E questo non si tocca.
Anzi, ReArmEurope, in fatto di conti pubblici, segue la strada tracciata dal Piano Draghi, che prevede una quota di investimenti in industria civile e una parte nella costruzione della sicurezza comune. «Al netto dei carri armati, è evidente che si andrà all’emissione di un debito comune», prosegue Arfaras. «Non è un caso che i democristiani tedeschi, vinte le elezioni, vogliano rendere il loro bilancio pubblico più duttile. E altrettanto non è un caso che il rendimento dei titoli di Stato tedeschi a dieci anni sia schizzato. La Germania farà debito per ricostruirsi un esercito. Ma allo stesso tempo riceverà pro quota una parte del debito europeo». L’ipotesi del debito comune ha fatto tirare un sospiro di sollievo alle Borse europee. Dopo giorni di paura dettata dalle minacce di Trump, dal caro-energia e dall’incertezza degli sviluppi della guerra, le piazze di qua dall’Atlantico hanno ritrovato fiducia.
«Il vero impedimento è che non esiste un demos europeo. Abbiamo a che fare con molti Paesi, ciascuno con la propria storia e la propria lingua. Fare un esercito comune prevede che ogni membro Ue produca l’arma che sa fare meglio. Il problema non è industriale, ma chi è al comando. Questo, in teoria, dovrebbe essere franco-tedesco, perché per la prima volta da secoli combattono una guerra comune invece tra loro. Però come fai a lasciare nelle seconde linee gli inglesi? Oppure la Spagna. Ma anche noi». Anche il tempo non ci è amico. La riforma più importante che la storia militare europea abbia mai visto è stata quella dell’esercito prussiano durante le guerre napoleoniche. Ci vollero sette anni. E noi non li abbiamo sette anni. «Però abbiamo la solida base industriale dal quale partirebbe ReArmEruope».
Da un lato, Arfaras ricorda le eccellenze di filiera di ogni singolo Paese. La stessa Italia può vantare una Leonardo di tutto rispetto. «Eccelliamo nella marina e nell’aviospazio, per esempio, filiere non di poco conto di questi tempi». Dall’altro, ragiona sulle potenzialità del manifatturiero europeo preso nella sua completezza: «Più avanzato di quello Usa e certamente di quello russo». Un’opportunità di crescita economica, questa, che dovrebbe far riflettere chi, in Italia, è contrario al progetto di riarmo Ue. «Per quanto attenzione, da noi i pacifisti e i putiniani sono molti di più all’opposizione che al governo. L’“ucrainità” nel nostro paese è più forte con il governo Meloni».
E poi c’è la questione dell’ombrello nucleare. Che Arfaras riconduce all’Articolo 5 della Nato, che prevede una reazione congiunta qualora un membro dell’Alleanza atlantica venisse attaccato. «Nel momento in cui Trump dice che il nucleare Usa copre solo chi lo paga, ma dall’altra parte c’è Putin che avanza, l’Europa che fa? Su questo Parigi e Londra sono indispensabili». Quindi, al netto di qualsiasi posizione identitaria ed euroscettica, a Roma come a Parigi, l’asse Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Spagna tiene. E i conti tornano.
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