La giornalista indipendente Katerina Gordeeva, riparata in Lettonia per sfuggire alla repressione di Putin, racconta la guerra in Ucraina attraverso diverse testimonianze raccolte nel suo nuovo lavoro, il volume Oltre la soglia del dolore. 24 voci ucraine e russe, per chi sa ascoltare (21lettere), che ci offre uno spaccato intimo e sofferto delle vite di civili stravolte dal conflitto e dalla violenza, storie che sovente trapassano nell’invisibilità delle cronache. Classe 1977, ex reporter di guerra e vincitrice nel 2022 del Premio Anna Politkovskaja, Katerina Gordeeva dirige un proprio canale YouTube di interviste, Skazi Gordeevoj (‘Dillo a Gordeeva’), seguito da oltre un milione e mezzo di iscritti.

Lei ha scritto che la sua nazione ha mosso guerra a quelli che ama. Come vive questo dissidio?
«In realtà non mi sento russa né ucraina. Sono ebrea, ma sono nata e ho vissuto tutta la mia vita in Russia, mentre metà della nostra famiglia risiedeva in Ucraina. A livello identitario, mi sento di Rostov sul Don, dove sono nata. Quando ero piccola, Mosca, così come anche San Pietroburgo, mi sembrava lontanissima, irraggiungibile. Mariupol e Donetsk rappresentavano invece le città della mia infanzia. Il primo mare che ho visto è stato il Mar d’Azov».

Lei sottolinea come, dall’annessione della Crimea, sia aumentata la propaganda in Russia, una delle ragioni che l’hanno spinta a vivere all’estero e a diventare una giornalista indipendente. Oggi come giudica la situazione?
«È peggio di prima. La mia avvocatessa è la stessa della mia amica Zhenja Berkovic, poetessa, regista e drammaturga russa, che è stata in prigione per quasi due anni: una donna molto coraggiosa, poiché oggi è diventato pericoloso in Russia difendere i detenuti. Zhenja mi ha raccontato di aver scorto i libri di George Orwell all’interno delle camere delle guardie carcerarie. Lei pensava che fossero lì per permettere alle guardie di acquisire una mente più aperta e cambiare la propria vita, mentre invece questi libri erano stati accordati dal capo dipartimento per insegnare loro come migliorare la sorveglianza. Non ci potevo credere, ma è la verità. La propaganda russa è diventata più stringente e diretta, senza alcuno spazio per l’autocritica. Tutti devono credere a quanto diffuso dal sistema. Se non ci credi, se spegni la televisione, perdi la connessione con la comunità, con lo Stato. Le persone che vivono all’interno del sistema hanno un lavoro e un tenore di vita totalmente diverso rispetto a coloro che stanno all’opposizione. Non posso essere molto precisa, ma penso che nelle carceri russe, in questo momento, si trovino più di diecimila prigionieri di coscienza. La maggior parte di loro è costituita da giovani contrari alla guerra o a cambiamenti della Costituzione: nati nel 2000, sono cresciuti nell’era di Putin, non hanno conosciuto alcuna vera alternativa. Zhenja comunica con me attraverso una sorta di diario e mi racconta la storia di tanti di questi giovani prigionieri di coscienza».

Qual è oggi la condizione del giornalismo?
«Alcuni giornalisti si battono tutt’ora per la verità, ma il giornalismo, a mio avviso, non esiste più. Secondo la politica ufficiale russa, il giornalismo deve servire a veicolare i messaggi propugnati dallo Stato, le verità ‘ufficiali’. In Russia abbiamo un accesso molto limitato a YouTube, mentre i giornali indipendenti sono vietati. È possibile leggere e sentire solo ciò che lo Stato ha avallato. In una tale situazione, non si può parlare di giornalismo, ma di giornalisti che, pur lavorando per i media ufficiali, cercano nonostante tutto di fare il proprio lavoro in maniera quanto più coscienziosa. Si può parlare di singoli giornalisti, non del giornalismo in generale».

Lei ha dato spazio, nelle sue opere, anche ai volontari russi. Un ufficiale ha fucilato un giovane soldato di leva, Artem Antonov, che si è rifiutato di andare a combattere in Ucraina. La dissidenza in Russia è ancora viva?
«Sto ultimando un lungometraggio di tre ore di prossima uscita dedicato ai disertori russi. La resistenza in Russia esiste ancora. Dobbiamo discutere all’interno della nostra nazione. Abbiamo perso non solo la possibilità di scegliere ma anche la capacità di volere qualcosa. Non sappiamo che cosa vogliamo, non ce lo chiediamo neanche più. A un giovane soldato russo che ho intervistato, ho chiesto: “Hai visto nemici in Ucraina?”. “Mia nonna – mi ha risposto – abita in Ucraina”. Quando gli ho domandato se avesse avuto paura, mi ha confessato di non aver provato nulla, solo un’incredibile apatia, come qualcuno che avesse perso la propria anima. Ciò ovviamente non giustifica, ma aiuta a capire. Dobbiamo chiederci perché la nostra nazione è pronta a perdere in questo modo i propri figli. Io non posso parlare degli ucraini, ai quali posso solo rivolgere le mie scuse, ma devo pensare a cos’è accaduto insieme al mio Paese, perché siamo diventati così inumani».

La preoccupano le minacce russe relative all’impiego di un nuovo missile ipersonico o alle testate nucleari dispiegate in Bielorussia?
«Sì. Il mondo non sa come parlare con Putin. Già durante i primi anni della sua carriera ha capito molto presto di poter comprare qualsiasi cosa. Uomini d’affari e politici europei, anche dopo l’annessione della Crimea, hanno continuato a mantenere rapporti stretti con lui. Si è sentito impunito, e questo l’ha incoraggiato. Ricchi e politici hanno continuato a guadagnare, considerando il denaro più importante delle vite recise. Una persona che si sente così potente può fare quasi qualunque cosa. Trovo strano che il mondo non lo tema. Tutti hanno riposto le proprie speranze in Trump. Penso sempre che in Russia oggi la libertà di scegliere non è più considerata così importante e a Trump, così come ad altri politici americani, questo non interessa».