Il pericolo di una crisi “metastatizzata” in tutto il Medio Oriente resta sempre alto. Ieri, un nuovo attacco degli Houthi nel Mar Rosso ha fatto comprendere ancora una volta le capacità militari della milizia filoiraniana dello Yemen e i timori per le conseguenze di questi raid sul commercio. Il Comando centrale Usa ha riferito che le unità della flotta statunitense e di quella britannica hanno abbattuto 18 droni, due missili da crociera antinave e un missile balistico antinave diretti verso l’area meridionale del Mar Rosso. Il ministro della Difesa britannica, Grant Shapps, ha definito l’attacco sventato dalle forze angloamericane come il più grande dall’inizio di novembre. E attraverso il suo profilo X, Shapps ha ricordato che “il Regno Unito, insieme agli alleati, ha già chiarito che questi attacchi illegali sono completamente inaccettabili e, se continueranno, gli Houthi ne subiranno le conseguenze”.

“Adotteremo le azioni necessarie per proteggere vite innocenti e l’economia globale”, ha continuato il segretario alla Difesa di Londra. Un monito simile era stato lanciato nella dichiarazione congiunta che nei giorni scorsi era stata firmata dalla Casa Bianca da tutti i partner Usa impegnati nelle operazioni nel Mar Rosso (Italia compresa). Ma l’avvertimento, almeno per il momento, non sembra abbia avuto l’effetto di frenare i raid dallo Yemen. Anzi, il lancio di missili e droni rappresenta forse la risposta più eloquente al messaggio inviato dall’Occidente ma anche un segnale di come da Sanaa (e da Teheran) siano in grado di continuare questa politica dell’azzardo strategico e del continuo innalzamento della tensione. La conferma è arrivata proprio dal portavoce degli Houthi, Yahya Sari, che rivendicando il lancio di missili e di droni ha spiegato che “l’operazione è avvenuta come risposta preliminare all’attacco a tradimento cui sono state sottoposte le nostre forze navali da parte delle forze nemiche statunitensi”, e ha ricordato che le forze che rappresenta “non esiteranno ad affrontare tutte le minacce ostili nel quadro del diritto all’autodifesa”.

L’obiettivo Houthi resta sempre lo stesso dall’inizio di questa strategia della tensione, che, come ha confermato Sari, è “impedire alle navi israeliane o a quelle dirette nei porti della Palestina occupata di navigare nel Mare Arabo e nel Mar Rosso fino a quando l’aggressione non cesserà e l’assedio sui nostri fratelli nella Striscia di Gaza non sarà revocato”. E l’impressione è che la milizia sciita non sia disposta a cedere. Anche perché l’arrivo delle unità iraniane nel Mar Rosso e le difficoltà delle forze Usa nel costituire un’alleanza ben delineata in grado di proteggere le rotte commerciali costituiscono elementi che facilitano la strategia della tensione promossa dagli Houthi. L’escalation – contemporanea a quella in Libano – arriva non a caso mentre il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, è impegnato nel suo tour diplomatico in Medio Oriente.

Una missione (la quarta dopo il 7 ottobre) che ha lo scopo di arrivare a una linea comune tra Washington e i suoi alleati (in primis Israele) sulla fine della guerra nella Striscia di Gaza e sul futuro della regione. Dopo avere incontrato molti leader arabi e avere avuto colloqui accurati con le massime autorità israeliane, Blinken è volato ieri nei territori dell’Autorità nazionale palestinese per un vertice con il presidente Mahmoud Abbas. Un incontro che gli osservatori hanno definito “teso”, soprattutto per le divergenze sui fondi congelati e sulle pressioni nei riguardi del governo israeliano che Ramallah chiede con insistenza a Washington. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha riferito che Blinken ha sottolineato alle controparti dell’Anp che “gli Stati Uniti sostengono misure concrete per la creazione di uno Stato palestinese” e che diversi Stati arabi si sono impegnati sia nella ricostruzione e gestione di Gaza (e di un futuro Stato palestinese) sia nella normalizzazione dei rapporti con Israele.

Tuttavia, senza un taglio radicale con Hamas e senza una riforma strutturale dell’Anp che abbia come obiettivo quello della pace e della sicurezza anche dello Stato ebraico, è difficile che dagli Usa possa arrivare qualsiasi tipo di via libera. Al momento, l’urgenza è poi arrivare alla fine delle ostilità nella Striscia di Gaza, dove la guerra, che si concentra ora principalmente a Kahn Younis e nella parte centrale dell’exclave, vede da un lato la continua caccia ai vertici di Hamas e agli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi e, dall’altro lato, l’urgente bisogno di aiuti umanitari ai civili palestinesi. Su questo schema si muovono anche i Paesi arabi, con un segnale arrivato anche dal re di Giordania, Abdullah II, che ha invitato ad Aqaba il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e lo stesso Abu Mazen. Proprio l’Egitto ha in questa fase un ruolo-chiave. Ieri al Cairo è giunta una delegazione israeliana per discutere di un eventuale nuovo accordo per la liberazione degli ostaggi. E non è un caso che i funzionari dello Stato ebraico siano giunti nella capitale egiziana poche ore prima dell’arrivo nella stessa città di Blinken. Usa, Egitto e Qatar sono i principali intermediari tra Hamas e Israele sul fronte della tregua e della liberazione delle persone rapite il 7 ottobre. E tutti i protagonisti della regione sono consapevoli che per evitare l’espansione della crisi fuori dalla Striscia sia necessario partire da un’intesa che riguardi l’epicentro della guerra.