70 minuti e tutti a casa
A Napoli il corteo self-service: da Assange a Pulcinella, si rivede il no global Caruso
La Palestina in testa, gli universitari più arrabbiati, poi quelli che cantano. Infine i reduci. Settanta minuti e tutti a casa
Napoli. È un 25 Aprile self-service. Una manifestazione in cui ciascuno può ritagliarsi la porzione che preferisce. L’appuntamento è alle 11 a piazza Garibaldi. A quell’ora un brivido corre lungo la schiena dei pochissimi e bagnati presenti. Non più di uno sparuto gruppetto di persone mentre lì sotto, alla metro, la fila dei turisti in attesa di fare il biglietto è bella corposa. Ma bisogna solo avere pazienza. Nel frattempo fanno affari i venditori abusivi di ombrelli. Un po’ meno il vecchietto che si industria con le bandiere della Palestina: cinque euro per la quella piccolina è reputato un pezzo eccessivo, diremmo quasi fuori mercato. Non parliamo di quindici per quella grande. Per fortuna spiove. E la pattuglia si infoltisce. Per le manifestazioni il tempo di attesa è un’ora. Non lo chiamiamo ritardo accademico che qui l’università non riscuote molto successo.
Le anime del corteo: Palestina, aborto, Assange, Resistenza
“Fuori la guerra dalle università. Fuori Israele dalla università”. Gli slogan urlati sono tanti. E ciascuno sceglie la parte del corteo più vicina alle proprie idee o al proprio stato d’animo.
In testa ci sono i più arrabbiati. Free Palestine, con i palestinesi a tenere lo striscione. Donne col hijab: «Siamo algerine, viviamo da anni a Napoli». Poi gli universitari: da quelli incazzati a quelli più ridanciani. Quindi è il turno dei tamburi. La musica. L’allegria. Ma anche il classico “Meloni la senti questa voce, vaff…”. Non manca la sezione in difesa dell’aborto. Neanche lo striscione per Assange. Non manca niente. Nemmeno i riferimenti a Ilaria Salis presente in più di un monologo al microfono. Più dietro, quasi a sorvegliare, ci sono i più anzianotti. Da queste parti è più facile ascoltare “Fischia il vento”, “Bella ciao”, “Bandiera rossa”. Qui è più Resistenza che Palestina.
Qualcuno lo definirebbe reducismo. I vecchi compagni che si riconoscono. Nei loro occhi è quasi possibile scorgere le loro vite, almeno quelle politiche, la disillusione o il ricordo di quando gli arrabbiati erano loro. Anche la gioia nel vedere un bel po’ di giovani. C’è Paolo Nicchia, volto notissimo della sinistra anni Settanta e Ottanta. Il fotografo Luciano Ferrara che fotografava i Movimenti già nel 77: è ancora lì, in piedi sullo spartitraffico con la sua Leica. Francesco Romanetti, giornalista per anni al Mattino dove la redazione esteri da lui diretta era un’enclave rossa in uno dei quotidiani più democristiani (e anti Tangentopoli) d’Italia.
Quanto suonerebbe obsoleto oggi l’Eskimo di Guccini che cantava: “Con l’incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci, in tasca “l’Unità”, la paghi tutta, e a prezzi d’inflazione, quella che chiaman la maturità”. Di giornali di carta non ne vediamo nemmeno uno, fatta eccezione per “Rivoluzione” con il titolo in rosso e in esergo la frase di Karl Marx: “I filosofi hanno finora solo interpretato il mondo: ora si tratta di cambiarlo”. Prezzo 1 euro, di sostegno 2. Noi ne diamo 1,50: non per altro, questi spiccioli abbiamo.
Da Francesco Caruso al Pulcinella con kefiah
Non ci addentriamo nella battaglia dei numeri. Le manifestazioni che furono, sono un lontano ricordo. Ma un po’ di gente c’è. Sul marciapiede a osservarli ecco Francesco Caruso che nel 2001, ai tempi del G8 di Genova, era uno dei politici più noti d’Italia. Leader dei no global. Lui e Casarini monopolizzavano la tv. Gli anni passano per tutti. «Non rilascio dichiarazioni, sono entrato in semiclandestinità. Non dico niente di quel che faccio oggi». C’è anche Pulcinella in versione Medio Oriente con la kefiah e la bandiera della Palestina. «Ci sono sempre, non manco mai. Sono andato due volte in Palestina. Raccolgo soldi per loro con i miei spettacoli. Non c’è la possibilità di un dibattito senza ipocrisie. Lo Stato d’Israele è la rovina del popolo ebraico. Il mio è un Pulcinella ebreo che oggi sarebbe accusato di antisemitismo».
La rivoluzione non viaggia in metro
Lo spiegamento di forze dell’ordine è consistente, anche se non accade nulla. Solo a metà corso Umberto cambia lo scenario: si sistemano due blindati e una ventina di agenti anti-sommossa a difesa della sede di Fratelli d’Italia. È lì che gli studenti indugiano. «La repressione della polizia italiana sugli studenti è la stessa della polizia israeliana». “Israele te ne devi andare”. Ma è poca roba. È un corteo del tutto pacifico. Poco più di un’ora e si è già all’università Federico II. Alcuni studenti si incatenano. Altri espongono striscioni. C’è chi rilascia dichiarazioni che ricordano la Fiorenza di “Un sacco bello”: «Siamo contro l’imperialismo e contro il colonialismo». E ancora: «La battaglia di oggi per la liberazione della Palestina è la prosecuzione della Resistenza che fecero i partigiani. Siamo qui anche per offrire solidarietà agli oltre 150 studenti della Columbia University fermati dalla polizia. La polizia è polizia ovunque».
Quando il corteo entra in piazza Borsa, la seconda metà più lontana del corso Umberto è già trafficata. Si scorgono i bus in lontananza. Un corteo di settanta minuti, qualcosina in più. A loro sembra persino tanto. Sono scesi in piazza. Si sono rivisti. Hanno gridato. Cantato. Ballato. Poi si scende giù a prendere la metropolitana. Tempo d’attesa: dieci minuti. Meno male che la rivoluzione non viaggerà mai in metro.
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