Come noto, a mezzo dell’art. 1, comma 1, lett. b), della legge 9 agosto 2024, n. 114, il delitto di abuso di ufficio, da sempre contemplato all’art. 323 del codice penale, è stato abrogato. A fronte di un’opzione di politica criminale che, per la verità, a molti è parsa inopportuna per i vuoti di tutela che rischia di ingenerare nel sistema penale, contribuendo ad ulteriormente incrinarne un equilibrio già di per sé alquanto precario, non è mancato chi si è spinto sino a censurarne la legittimità costituzionale, denunciando la violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, della carta costituzionale in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 7, 19 e 65 della c.d. Convenzione di Merida, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 2003 e ratificata dall’Italia nel 2009. In buona sostanza la questione sollevata da ben sei ordinanze di rimessione -Tre promosse dal Tribunale di Firenze, una da quello di Locri, una da quello di Busto Arsizio e, l’ultima in ordine di tempo, dal Tribunale di Bolzano – può essere così sintetizzata: l’art. 19 della Convenzione contro la corruzione, che è un Trattato internazionale multilaterale a cui l’Italia si è vincolata ratificandolo, prevede che «ciascuno Stato Parte esamin[i] l’adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità». Siamo, dunque, dinanzi ad una norma che mette a disposizione degli Stati aderenti al Trattato uno “schema” di reato di abuso di ufficio, affinché questi prendano in considerazione l’idea di introdurre nell’ordinamento domestico una fattispecie che intercetti le tipologie di condotte sopra descritte, conformando così il diritto interno a standard minimi di tutela di beni giuridici rilevanti nel contesto di quel documento.

Ebbene il primo interrogativo da porsi, tenuto conto del fatto che l’art. 117, comma 1, Cost. richiede espressamente che la potestà legislativa venga esercitata non soltanto nel rispetto della Costituzione ma anche dei vincoli derivanti dagli obblighi assunti in sede internazionale (senza, peraltro, dimenticare che la Convenzione di Merida è stata approvata anche dall’Unione europea con decisione del Consiglio n. 801/2008), è se l’art. 19 abbia positivizzato un vero e proprio obbligo di penalizzazione dell’abuso di ufficio o si sia limitato ad una mera raccomandazione: diversamente da quanto si sostiene in talune, ma non in tutte, delle ordinanze sopra richiamate, a me pare che la formula utilizzata (“shall consider adopting”) – non a caso per nulla coincidente con quella (“shall adopt”) a cui si è ricorso, ad esempio, per dare ingresso nei singoli ordinamenti ai delitti di corruzione di pubblici finzionari stranieri o internazionali – orienti decisamente per la seconda delle alternative prospettate. Non si è, cioè, al cospetto di un obbligo, ma di una mera sollecitazione affinché ciascuno Stato valuti l’opportunità di procedere in quella direzione, pur rimanendo sostanzialmente libero nell’esercizio della propria discrezionalità politica.

Ciò nondimeno, volgendo lo sguardo all’art. 7, comma 4, affiora il secondo profilo problematico, che è, poi, il minimo comune denominatore di tutte e sei le pronunzie sopra citate: anche ammesso che nel diritto internazionale non sia rintracciabile un obbligo di incriminazione dell’abuso di ufficio, ciò non sarebbe d’ostacolo alla sussistenza del contrario obbligo di non abrogare il reato, una volta introdotto (c.d. obbligo di “stand still”), essendo quest’ultimo funzionale a garantire «sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono conflitti di interesse». D’altra parte, anche l’art. 65, che impone agli Stati parte di adottare le misure necessarie per dare attuazione a quanto stabilito dalla Convenzione, conforterebbe nell’idea che da questa possa ricavarsi un divieto di regresso, dalla cui inosservanza scaturirebbe la violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost..

Per quanto sia indubbio che si tratti di questione di non agevole soluzione, ciò che, a mio parere, non convince nella tesi che pretende di ravvisare un vizio di incostituzionalità nell’aver contravvenuto alla scelta di punire l’abuso di ufficio è come l’assenza di un obbligo di penalizzazione possa accordarsi con l’esistenza di un obbligo di mantenimento di ciò che c’era. Se, infatti, si muove dalla premessa, difficilmente confutabile, che non vi sia inadempimento di un obbligo di incriminazione “genetico”, non potrà, nel contempo, esservi un divieto di regresso ostativo all’abrogazione: in breve, se l’inottemperanza non è originaria non può esserlo neppure sopravvenuta.

Senz’altro originale, rispetto alle altre pronunzie sopra richiamate, la posizione assunta nell’ordinanza emessa dal giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Firenze, ad avviso del quale l’intervenuta abrogazione dell’abuso di ufficio confliggerebbe anche con il principio di uguaglianza, inteso come necessaria ragionevolezza nell’esercizio del potere legislativo (art. 3 Cost.), stante la persistente rilevanza penale di condotte – quale, ad esempio, quella che sanziona l’omissione di atti di ufficio (art. 328 c.p.) – espressive di un disvalore certamente più tenue rispetto a quanto tipizzato nella norma poi espunta dall’ordinamento. Ma anche questa censura si rivela poco o per nulla persuasiva, perché, anche a voler ammettere che dall’amputazione di una norma discendano intollerabili disparità di trattamento ed esiti irragionevoli, esulerebbe comunque dai poteri della Consulta supplire allo squilibrio venutosi a creare ripristinando ciò che il legislatore ha deciso di rimuovere, per lo meno sino a quando ci si collochi all’interno di un sistema penale-costituzionale governato dal principio della riserva assoluta di legge. Tanto precisato, non rimane che attendere la decisione della Corte costituzionale, alla quale è demandato il compito di sciogliere un nodo senz’altro intricato ma non autenticamente gordiano.

Filippo Bellagamba

Autore

Professore associato di diritto penale